Il management è il vero soggetto capace di dare un esempio di vision, trasparenza e correttezza dei valori base della cultura aziendale; la sua stessa leadership si basa sulla reputazione che esso ha presso dipendenti, clienti e fornitori. Da questo punto di vista, il comportamento etico risulta essere un elemento in grado di generare valore per l’azienda in maniera duratura nel tempo.

Max Weber, nei primi anni del Novecento, si chiedeva come fosse possibile che tra il XVI e il XVII secolo la politica economica capitalista si sviluppasse proprio in quei paesi (Nord Europa e colonie nordamericane) dove erano scoppiati i movimenti di riforma: quello protestante e quello calvinista. Quando nel 1904 egli scrisse L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, comprese il legame materno tra la diffusione della religione protestante e quella della cultura imprenditoriale.

Ciò significa che, se il fondamento su cui si erge la morale religiosa è l’esercizio dell’amore verso il prossimo, la tendenza all’accumulazione, all’investimento e al lavoro, proprie dello spirito capitalistico, non avrebbero potuto mai fondarsi e crescere nella sua prospettiva, e quindi in quei paesi, come l’Italia, dove si è salvaguardata la sua conservazione. Invece, a tal proposito, la Dottrina sociale delle Chiesa cattolica afferma che ogni attività economica si rende sempre possibile e non è assolutamente in contrasto con i valori della stessa fede cattolica.

Ricorda, infatti, Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus Annus (prg. 32) che “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L’economia, infatti, è un settore della multiforme attività umana, e in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa”. Ma a questo punto è naturale chiedersi se lo scopo dell’attività imprenditoriale, ovvero “il raggiungimento del fine economico”, possa essere etico, indipendentemente da concezioni religiose, come quella protestante, che descrivevano il lavoro umano come possibilità di salvezza.

Se la definizione di imprenditore è di “esercitare professionalmente un’attività economica per la produzione o lo scambio di beni o servizi” al fine di generare profitto, è possibile che quest’ultimo vada di pari passo con il concetto di etica? Che possa concretizzarsi in una prospettiva etica? Ritengo che ciò non solo sia possibile, ma è oltremodo auspicabile, in quanto il comportamento etico può essere a tutti gli effetti considerato un intangibile asset strategico per l’impresa. In questo senso può essere assimilabile a uno qualunque degli assets dell’impresa, nella fattispecie a un asset intangibile.

Fornendo qui una definizione descrittiva e non applicativa del significato di intangibles, si possono brevemente richiamare due approcci che mettono in evidenza la relazione tra l’intangibilità e il buon comportamento dei soggetti. Baruch Lev, nella sua definizione di intangible, ha posto in primo piano le caratteristiche market driven di tutti gli asset invisibili e le loro relazioni con il mercato esterno. Così, per intangible viene indicato tutto ciò che non ha effetti fisici o monetari, includendo l’organizzazione, l’innovazione, le risorse umane, ecc., mentre a loro volta questi intangibili ne generano degli altri, il capitale umano genera idee e quindi innovazione. Per Baruch Lev, quindi, lo sviluppo degli intangibili si alimenta in modo circolare e continuo: poiché l’innovazione è il principale generatore di intangibles/capitale intellettuale/proprietà intellettuale, focalizzarsi sull’innovazione consente di evidenziare i caratteri e gli impatti degli intangibles sull’impresa.

Esiste poi un secondo approccio che può essere definito offer driven, cioè guidato dall’offerta. Questo prende in considerazione l’idea che gli elementi interni all’impresa, e nello specifico quelli che ne costituiscono il capitale intellettuale, rappresentano le vere sorgenti del profitto futuro. Il capitale intellettuale si articola in capitale umano, capitale strutturale e capitale relazionale. Il capitale umano è composto da variabili riferibili agli individui all’interno dell’impresa. A esso sono relativi i concetti di conoscenza, competenza, esperienza, motivazione, coesione e fiducia. Sono tutte caratteristiche presenti solo grazie alle persone che compongono la compagine aziendale. Il capitale strutturale riguarda invece l’orientamento strategico delle imprese, la loro mission e le modalità con cui viene perseguita. Ciò significa che tale capitale è afferente all’organizzazione interna dell’impresa, nonché ai processi decisionali. Per ultimo, il capitale relazionale si esplicita nell’insieme dei rapporti che l’impresa intrattiene con tutti i soggetti a essa esterni.

In questo senso, il capitale umano, quello strutturale e quello relazionale, in cui si declina il capitale intellettuale, con le loro caratteristiche e le loro relazioni pratiche assommano tutte le proprietà necessarie alla creazione di nuova ricchezza. La qualità e intensità dei rapporti che l’impresa intrattiene è costitutiva di valori come la fiducia, la reputazione, la stima, l’immagine e il consenso.

Affinché un’impresa ottenga un vantaggio competitivo è necessario che essa sviluppi al massimo grado possibile questi tre elementi, di modo che la competenza unita alla organizzazione consenta di ottenere un consenso duraturo.