Una task force inviata dall’Europa si accinge a sbarcare in Italia con un compito ambizioso: salutata come squadra anti-disoccupazione, sarà composta da esperti che illustreranno a governo e imprese come – va da sé – aumentare l’occupazione del nostro Paese. Spiegheranno, in particolare, come utilizzare i fondi strutturali destinati all’Italia, gran parte dei quali non sono ancora stati usati, per incrementare il numero di occupati. Prima di venire in missione, gli aspiranti salvatori della (nostra) patria hanno emesso il loro verdetto sulle criticità del nostro sistema. «La disoccupazione giovanile in Italia è causata da molti fattori tra cui la segmentazione del mercato del lavoro e un sistema squilibrato di sostegno alla disoccupazione che ha creato diseguaglianze tra le generazioni», ha affermato la Commissione europea presentando i dieci valorosi che saranno mandati nel nostro Paese. Quanto meno, l’analisi è corretta. «In Italia persiste tuttora un sottofondo culturale che vede in contrapposizione otium e negotium; ovvero, non si è ancora instaurata la consuetudine di preparare i giovani al mondo del lavoro. Pensare al percorso di studi, anche in termine di risultati e opportunità, da noi, spesso, è un tabù», afferma Gianni Zen, preside del liceo Brocchi di Bassano del Grappa interpellato da ilSussidiario.net. Secondo Zen, in sostanza, lavorare è un’attività che «spetta sempre agli altri, la cultura che prevale è puramente teorica. Mentre il lavoro in sé non è inteso come quella forma prioritaria di realizzazione delle persone in quanto persone».



Un tendenza che si ravvisa, anzitutto, nella scelta della scuola secondaria superiore. «È diffusa l’idea che le scuole di serie A siano i licei, quelle di serie B gli istituti professionali, di serie C i tecnici; per non parlare delle scuole di formazione professionale». Il che determina situazione paradossali. «In Veneto, solamente l’1% di chi ha fatto un liceo trova lavoro, mentre le aziende non trovano persone che abbiano fatto un istituto tecnico». Lo stesso problema assume nuove forme all’università. «Basti pensare che il 45% dei ragazzi che si introducono nel mondo lavoro fanno scelte lontane dai loro percorsi di studio. Che non erano, evidentemente, finalizzati alla competenze che avrebbero dovuto maturare in virtù delle richieste del mercato. A tutto ciò si somma la frattura tra outsider e insider, descritta dall’Europa come «sistema squilibrato di sostegno alla disoccupazione che ha creato diseguaglianze tra le generazioni». Anche Zen la pensa così, e spiega l’origine del gap: «Siamo in un Paese conservatore dove sono state scaricate sui figli le contraddizioni ipergarantiste dei padri. Abbiamo ricevuto dai nostri genitori decenni di sacrifici, ma lasciamo ai nostri figli un enorme debito pubblico e un sistema bloccato». 



Sistema che, secondo Zen, non è necessariamente obbligato a restare tale. «È possibile smuovere alcune protezioni per i lavoratori più anziani. Offrendo loro in cambio reti di protezione, uscite laterali o forme diversificate di contrattazione. All’interno delle aziende, ad esempio, ci sono ruoli che possono essere ridistribuiti in funzione delle competenze e delle energie disponibili. Un esempio concreto? «Poniamo il caso – spiega –  di un dirigente anziano che costi 3 o 4 volte un lavoratore giovane; non si capisce perché non si possano riequilibrare i costi in favore del giovane e in funzione delle nuove mansioni e delle effettive energie e disponibilità dell’anziano. Ma il problema – conclude – è che l’Italia è l’unico Paese dive esiste l’anzianità di servizio, con gli scatti di carriera automatici». 

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