Riprende oggi la trattativa tra Governo e parti sociali per la riforma del mercato del lavoro. Il punto più controverso resta quello dell’articolo 18. Il governo non lo considera un tabù, il mondo imprenditoriale spinge per una sua riforma, la Cisl e la Uil si dicono disponibili a una sua revisione, mentre la Cgil non pare intenzionata a toccare la norma dello Statuto dei lavoratori. «Certamente la finalità della riforma – ci spiega Arturo Maresca, Professore di Diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma – è creare più crescita e occupazione, non aprire la strada ai licenziamenti. Ma non è che toccando l’articolo 18 di colpo si avrebbe un’ondata di licenziamenti. Basta vedere quanti ce ne sono nelle aziende fino a 15 dipendenti, dove non c’è l’articolo 18, e quanti nelle imprese più grandi. Non è che nel primo caso ce ne sono tanti e nel secondo pochi».



Ma l’articolo 18 è, come qualcuno sostiene, un ostacolo all’occupazione?

È un freno alla crescita della “buona” occupazione. Mi spiego: oggi, se un’impresa ha bisogno di lavoro non è che non assume, ma trova una serie di modalità per non farlo a tempo indeterminato, così da eludere l’articolo 18, usando stage, collaborazioni, contratti a termine, ecc. Ovviamente è un modus operandi che crea un danno rilevante per i lavoratori coinvolti, perché nel momento della difficoltà sono primi a essere lasciati “a terra”. Di fronte alla crisi, solitamente un’impresa mette in cassa integrazione chi ha il tempo indeterminato e non rinnova gli altri contratti.



L’articolo 18 in qualche modo è quindi causa di precarietà?

Si tratta ovviamente di un effetto indotto, causato dal fatto che il contratto a tempo indeterminato viene visto come una forma di rapporto di lavoro indissolubile. Il vero punto critico dei licenziamenti è che nessuno è in grado di sapere quando si può licenziare e quando non si può. Questo è un problema che riguarda la nozione di “giusta causa o giustificato motivo”.

La Cisl, per superare questo problema, ha proposto di utilizzare, anche per i licenziamenti individuali per motivi oggettivi, la legge 223/1991, che regola le procedure di mobilità. Cosa ne pensa?



Il punto di partenza è sicuramente condivisibile, ma non è quella la strada giusta da percorre. La legge 223/1991, infatti, prevede un percorso procedurale che è irto di mille pericoli. Dando un’occhiata alle sentenze, si può notare che questi licenziamenti talvolta vengono annullati per vizi procedurali (una lettera arrivata in ritardo, una comunicazione incompleta, ecc.). Non viene quindi raggiunto l’obiettivo di una semplificazione che crei maggiore chiarezza.

Che tipo di intervento ci vorrebbe allora?

La semplificazione dell’articolo 18 dovrebbe passare da questa via: anziché la previsione della reintegrazione, che dovrebbe restare in vigore solo per discriminazioni e abusi da parte dei datori di lavoro, dovrebbe essere previsto (e chiaramente predeterminato) un risarcimento del danno. In questo modo sarebbe chiaro qual è il costo del licenziamento, nel caso in cui sia illegittimo. Questo aiuterebbe a raggiungere un obiettivo importante.

 

Quale?

 

Cercare di far ritornare le imprese a utilizzare il contratto a tempo indeterminato. Le formule contrattuali migliori non sono quelle che creano vincoli coattivi. Dobbiamo quindi favorire il contratto a tempo indeterminato, rendendolo più appetibile attraverso una possibilità di uscita. L’operazione complessiva che si dovrebbe realizzare con la riforma del mercato del lavoro sarebbe in ogni caso quella di distribuire meglio la flessibilità. Non ci si può concentrare, come è avvenuto finora, solo su quella in entrata, moltiplicando le tipologie contrattuali, utilizzate correttamente o meno, ma bisogna distribuirla sulla gestione del rapporto di lavoro e anche sull’uscita.

 

Crede sia utile “sfoltire” il numero di tipologie esistenti di contratti di lavoro?

 

Quello della semplificazione del numero di contratti dovrebbe essere un effetto indotto. Mi spiego: mentre bisogna combattere l’utilizzazione impropria di alcune forme come gli stage, le collaborazioni, ecc., dovrebbe essere il mercato stesso a dire quali vanno mantenute perché maggiormente utilizzate. Certo è che se, come dicevo prima, le imprese trovano conveniente utilizzare il contratto a tempo indeterminato, senza il vincolo dell’indissolubilità, si userebbero meno i contratti a termine e le altre forme più flessibili.

 

Cosa ne pensa, invece, della proposta, avanzata dai sindacati, di far costare di più i contratti flessibili?

 

La trovo un’ottima idea. Potrebbe far sì che la flessibilità “buona” abbia un costo maggiore, che può essere poi finalizzato a interventi a sostegno dell’occupazione. Un po’ come accade già per le forme di lavoro somministrato, dove è previsto un contributo che va ad alimentare un fondo che gestisce la formazione e il sostegno a questa tipologia di lavoratori.

 

(Lorenzo Torrisi)