Bene o male, una pezza allo spread è stata messa, il bilancio sembra essere stato sistemato e la credibilità internazionale pare riacquisita; a costo di sacrifici e pesanti aggravi sul portafoglio dei cittadini, certo. Ma tant’è, l’emergenza è stata sanata. Posto che il rischio di default si è archiviato, il governo Monti si accinge a cimentarsi con il suo vero banco di prova: rilanciare l’occupazione. Se l’obiettivo non sarà centrato, le tante privazioni messe in conto saranno valse a ben poco. Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, ha, quindi, illustrato ai suoi colleghi europei riuniti a Bruxelles i cardini della riforma del lavoro che, a stretto giro, sarà messa a punto. Oggi, in particolare, è previsto un nuovo incontro tra governo e parti sociali. Abbiamo chiesto e Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, se gli orientamenti annunciati dalla Fornero potranno sortire l’effetto desiderato.



Secondo il ministro, la priorità è il riordino dei contratti. È così?

No. Tantomeno se l’intenzione è quella di sfoltirli indiscriminatamente. Quelli che ci sono, infatti, rappresentano una ricchezza che risponde alle svariate esigenze del mercato italiano. Forse ci sono un paio di contratti che si potrebbero eliminare: il job sharee il job on call. Per il resto, andrebbero preservati o migliorati.



Secondo quali modalità?

Mi pare che ci sia una certa convergenza nel favorire, anzitutto, l’apprendistato. Se vogliamo, questa operazione già di per sé semplificherebbe il panorama. Un contratto ben regolamentato e più appetibile per le parti consentirebbe, indirettamente, di svuotare gli altri di contenuto perché non vi sarebbero più, semplicemente, la convenienza a utilizzarli.

Come rafforzare, quindi, tale tipologia contrattuale?

Oggi è troppo complicato. Molti imprenditori che intendono avvalersene si trovano in difficoltà per i numerosi adempimenti burocratici cui sono sottoposti, quali la rendicontazione della formazione. Dovrebbero essere, anzitutto, chiariti i contenuti formativi e le metodologie di certificazione.



La Fornero oggi incontra le parti sociali. Quali potrebbero essere i punti di maggiore attrito con i sindacati?

Come sempre, il famoso e famigerato articolo 18. Mi auguro che, quantomeno per sfinimento, si decida di non discuterne più per passare a trattare questioni di sostanza che possano realmente incidere sull’occupazione e sullo sviluppo.

Quali?

Va detto, anzitutto, che insistere sulla flessibilità in entrata e in uscita determina un turn over che, di fatto, non crea nuove posizioni. Tutti gli studi e le esperienze empiriche dimostrano che, agendo su queste leve, lo stock di lavoratori rimane invariato. Investire risorse pubbliche, d’altro canto, non è possibile, perché mancano i soldi. Occorre, quindi, creare le condizioni per organizzare meglio il lavoro. È l’unico modo con il quale le aziende possano recuperare competitività e, quindi, incrementare l’occupazione. Si tratta, in sostanza, di concentrare l’attenzione sulla flessibilità interna al rapporto.

 

In cosa consiste?

 

La flessibilità organizzativa consente l’adeguamento al cambiamento dei processi produttivi attraverso la diversificazione dei turni, la mobilità interna e gli orari di lavoro. Le aziende, e in particolare quelle che investono in tecnologie avanzate, hanno la necessità di far funzionare al 100% gli impianti e attraverso tali meccanismi organizzativi possono farlo. Era, del resto, la condizione che aveva imposto Fiat per investire in Italia. La vicenda di Pomigliano fu paradigmatica rispetto alle caratteristiche del nostro mercato del lavoro.

 

Cosa intende?

 

Per mesi ha occupato le principali pagine dei giornali, ma la memoria collettiva ha già rimosso il fatto che allora si parlò di tutto salvo che di flessibilità in entrata o in uscita. Tantomeno di articolo 18. Allora si introdusse il principio per cui l’azienda è competitiva se può far cambiare al lavoratore mansioni, e se può formarlo in modo che possa crescere costantemente. In tal senso, uno dei modelli organizzativi di maggior successo è quello giapponese.

 

Perché?

 

In esso il lavoratore è fidelizzato attraverso un contratto a tempo determinato e su di lui vengono investe molte risorse in formazione. Ha la possibilità di svolgere praticamente tutte le funzioni all’interno della stessa azienda, e la sue possibilità di carriera aumentano in virtù del numero di mansioni attraverso le quali è passato. Questo modello permette di creare imprese ad altissimo valore aggiunto.