L’attuale riforma del mercato del lavoro ha l’obiettivo di migliorare l’efficacia sia del contratto a tempo indeterminato, aumentandone la centralità, che degli altri numerosi contratti in essere, per giungere a nuove forme di flexsecurity. Nel dibattito in corso si è anche introdotta l’ipotesi di una forte riduzione delle forme contrattuali, che sembra però eccessiva per gli obiettivi dichiarati, spingendosi sino ad ipotizzare un “contratto unico” quale soluzione esclusiva. Si tratta non soltanto di una evidente utopia, ma anche di una soluzione non adeguata alle effettive esigenze delle parti coinvolte.
Ciò che appare davvero necessario è dare equilibrio ai vari contratti, non tanto eliminare le distinzioni riducendo tutto ad una inopportuna semplificazione: occorre piuttosto riformulare i contratti in modo più appropriato. Ogni forma contrattuale serve infatti ad uno scopo specifico: le imprese e le persone devono poter beneficiare di flessibilità utilizzando le forme più idonee per i propri obiettivi e per la propria sicurezza. Il problema semmai risiede nel fatto che esiste una flessibilità buona, che va valorizzata, e una cattiva, che va quantomeno corretta.
Innanzitutto non c’è nessuna ragione per cui non debba valere per tutte le forme di contratto il rispetto di minime condizioni di tutela: minimi retributivi, istituti contrattuali (quali ferie, malattie, mensilità aggiuntive, TFR) e contribuzione vanno parificati. Se si ritiene che siano elementi fondanti della società civile tanto da applicarli al lavoro dipendente, non è accettabile che non valgano in ugual misura anche per le altre forme contrattuali. Non ha infatti alcun senso che lavoratori a progetto, con partite iva, lavoratori in appalto e soci di cooperativa possano essere pagati al di sotto dei minimi retributivi degli equivalenti lavoratori in possesso di un contratto da dipendente, e che non godano dello stesso trattamento contributivo.
Anzi, il lavoro flessibile, come più volte sottolineato, deve costare di più: a maggiore flessibilità dovrebbero corrispondere, in particolare per le fasce più basse che non raggiungono i ventimila euro annui, condizioni economiche migliorative, proprio a causa dei minori diritti connessi.
Il lavoro in somministrazione rispetta già oggi queste condizioni, con costi giustamente più elevati, simili al lavoro a tempo indeterminato, ponendosi come la strada maestra per la buona flessibilità, più e meglio di apprendistato e contratto a termine direttamente gestito dall’azienda; solo le Agenzie per il Lavoro applicano infatti con il contratto di somministrazione condizioni ideali, perché oltre a garantire i livelli minimi aggiungono tutele ed opportunità per la persona, come la formazione, un efficace sistema di welfare interno e un’organizzazione tesa alla continua impiegabilità della persona. Anche le altre forme contrattuali flessibili dovrebbero sostenere oneri in grado di contribuire a questa logica di efficace supporto ai lavoratori.
Le APL hanno e possono sempre più avere, tra l’altro, un ruolo davvero fondamentale anche per garantire il rispetto dei contratti nella forma e nella sostanza, come solo una Parte Terza può efficacemente fare. Proprio per queste ragioni è alla firma l’accordo tra le Parti che darà il via allo sviluppo dell’apprendistato in somministrazione e, secondo questa logica, potrebbe essere opportuno affidare alle Agenzie la gestione di contratti difficilmente controllabili come ad esempio il lavoro a chiamata o quello accessorio tramite voucher.
Il fatto che le Agenzie siano soggette ad un meccanismo di autorizzazione ministeriale e ai puntuali controlli del sistema bilaterale (associativo e sindacale), rappresenta una garanzia, che forme contrattuali flessibili che dovessero rimanere forzatamente al di fuori di questo sistema – come appalto, contratto a progetto e partita iva – difficilmente potranno avere.
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