Non so se ringraziare Costanza Miriano per aver scritto Sposati e sii sottomessa, o se invidiarla per non averlo scritto io. Un libricino piccolo e candido, che se appena si apre esplode grappoli di considerazioni tanto politicamente scorrette quanto profetiche. Un discorso in cui convivono lo spicciolo e il trascendente, come spesso negli atti delle mamme; in cui sicuramente una certa fetta di lettori godrà vedendo coraggiosamente professate tante convinzioni segrete, ma che sicuramente offrirà motivi di stupore.



Se infatti, pur in mezzo a un ululare di lupi, ci si può trovare in due o tre a pensarla in un certo modo su aborto, Magistero della Chiesa, indissolubilità del matrimonio, la parola sottomessa genera sempre un qualche disorientamento. Anche la più incallita delle teocon si aspetterebbe di trovare presto la pagina in cui viene spiegato come il titolo sia volutamente provocatorio, e l’invito alla sottomissione sia solo una citazione da S. Paolo, che deve naturalmente essere contestualizzata, rivista e riformulata (insomma, cancellata) nell’ottica dei tempi cambiati.



Invece questa pagina non arriva. E qui è la scandalosa novità. Proprio tu, che affili i coltelli per le battaglie pro life, che non ti perdi un discorso del Papa, che usi perfino i metodi naturali, non hai considerato che il monito paolino potrebbe valere anche oggi, che la sottomissione potrebbe davvero essere parte fondamentale della vocazione femminile al matrimonio. Costanza Miriano formula un rivoluzionario femminismo che riconosce come peculiarità dell’essere donna quella di sapersi mettere “al di sotto”, ma sotto come le fondamenta di un palazzo o addirittura come Atlante che sostiene il globo terrestre. Rinunciare a questo ruolo è un’emancipazione fasulla, in cui il miraggio di una malintesa libertà porta a ripetere, a ruoli rovesciati, la logica della sopraffazione tra i sessi, perdendo per strada quel quid che costituisce la possibilità per una donna di realizzarsi e di rendere migliore il mondo.



Questa professione si ammanta di alcuni corollari, parimenti fuori dal coro. Particolarmente scandalose le implicazioni circa il lavoro femminile e la conciliazione di questo con la vita familiare, a partire dalla demolizione di alcuni inviolabili dogmi (ammorbidita dal fatto che l’autrice è un’affermata professionista madre di quattro figli): 1) che si possa fare bene tutto “è una balla colossale”: il tempo dedicato a un ambito è necessariamente sottratto a un altro; 2) altra “balla” è il mito del “tempo di qualità” che compenserebbe la scarsa quantità di presenza in casa: per “insegnare ai ragazzi a ragionare, incuriosirli, appassionarli, accompagnarli verso un orizzonte alto” il metodo non può essere quello di andarsene; 3) una donna non deve e non può lavorare quanto un uomo, né come un uomo. Lo spazio che una mamma deve concedere alla vita familiare (se non a prezzo di snaturare sé e privare i figli di una presenza necessaria) implica un tempo lavorativo limitato rispetto a quello dei colleghi maschi.  Se si parte dall’evidenza che alla donna certe cose sono più connaturate (possiamo essere tutti d’accordo almeno sull’allattamento?), non deve scandalizzare che ci sia una sproporzione a carico di quest’ ultima relativamente alla cura della casa e dei figli (e, perché no, del marito).

Meglio allora – potendoselo permettere – non lavorare? No. C’è un apporto femminile al mondo del lavoro che va preservato: uno stile di accoglienza, una capacità di fare più cose contemporaneamente, un istinto nel saper gestire le persone e le emergenze; un apporto prezioso a patto che resti appunto femminile, quindi per sua natura subordinato al bene di mariti e figli. La soluzione non deve allora andare nella direzione di annullare le differenze di genere, ma di prevedere delle strutture che valorizzino tale caratterizzazione; pari opportunità, insomma, non sono uguali opportunità date a maschi e femmine, ma opportunità adeguate alle esigenze delle une e degli altri: più che aumentare gli asili nido, abbracciare una flessibilità che permetta a una mamma di non delegare la cura di un piccolo.

Peraltro, ammettere i limiti professionali che la maternità comporta, va di pari passo con la constatazione di alcune competenze specifiche: se, costretta dalle pendenze domestiche, la donna riesce a svolgere le mansioni lavorative più velocemente, perché non riconoscerlo come merito? Non sarebbe un vantaggio per l’azienda (riprendendo un esempio del libro) pagare una trasferta di un solo massacrante giorno invece che distribuire lo stesso incarico a cavallo di un costoso pernottamento? Per una madre lavoratrice la prima opzione sarebbe senz’altro preferibile (a meno che non si voglia riposare un po’ in un albergo vietato ai lattanti insonni). Ma quando i figli sono piccoli, e richiederebbero la presenza pressoché costante della mamma? Nel penultimo capitolo del libro, Costanza Miriano formula una proposta, utopica ma non priva di ragione: la possibilità di lunghe aspettative retribuite (senza che questo comporti il suicidio professionale), nei primi anni di vita del figlio, che vengano poi restituite con anni di lavoro in età pensionabile.

Non credo che una simile proposta sarà accolta facilmente; ma una mentalità che considera la prole un handicap è intrinsecamente votata all’estinzione, e forse quando i figli di famiglie numerose saranno la maggioranza parlamentare, qualcosa si muoverà…

 

(Elisabetta Pavesi)