«Il fatto che gli stipendi italiani siano tra i più bassi d’Europa non è certo una novità, ed è uno dei più grandi problemi del nostro Paese. Esiste poi un ulteriore problema, cioè quello delle dinamiche salariali». Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, commenta i dati Eurostat, pubblicati nel recente rapporto “Labour market statistics”, che evidenziano come gli stipendi medi italiani siano tra i più bassi dell’Eurozona, inferiori anche a quelli della Grecia. Ha da poco commentato questi dati anche il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, secondo cui “bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività”.



Professore, ci stava parlando dell’altro problema, quello delle dinamiche salariali.

Dagli inizi degli anni Novanta, l’esigenza di contenere l’inflazione per entrare nell’euro ha portato a un abbassamento dei salari, o meglio a tenerli sotto controllo. Questa cosiddetta politica di moderazione salariale, che ha accompagnato il nostro Paese negli ultimi 20 anni, ha determinato una curva della dinamica salariale che, quando non piatta, è addirittura negativa. Tutto questo a fronte di un contesto europeo in cui invece la curva salariale si alzava. In poche parole, quindi, il combinato effetto di questa politica di moderazione salariale con un mancato sviluppo industriale, ha portato l’Italia a scivolare progressivamente verso il basso della graduatoria.



Come spiega invece che i nostri stipendi medi siano più bassi di quelli della Grecia?

Il problema della Grecia riguarda l’indebitamento, e si tratta di un Paese che ha in parte “drogato” i propri salari, soprattutto per quanto riguarda il pubblico impiego. I dipendenti pubblici sono stati quindi pagati di più, aumentando così i debiti per il bilancio pubblico, fino a quando non ci si è resi conto che qualcuno li avrebbe dovuti pagare. Non mi farei perciò sorprendere del fatto di essere sotto la Grecia, perché per quel Paese non è certo un motivo di orgoglio aver sviluppato questo incremento salariale. Un aumento che, ripeto, è concentrato sul pubblico impiego, e se andiamo a disaggregare i dati sui redditi della Grecia, ci accorgiamo come ci siano sacche di povertà maggiori che nel nostro Paese. Più in generale, poi, dovremmo smetterla di confrontarci con i paesi meno virtuosi, ma cominciare a farlo con quelli maggiori, come Germania, Francia e Inghilterra.



Parlando proprio della Germania, in Italia gli stipendi si avvicinano alla metà di quelli tedeschi.

Il problema riguarda proprio la politica industriale del Paese. La Germania ha fatto registrare uno sviluppo maggiore, che ha unito una crescita industriale con una crescita salariale, il che dimostra come ancora una volta i paesi che vanno meglio non sono quelli che vincono la competizione globale abbassando il costo del lavoro.

Come ha fatto l’Italia?

L’Italia ha pensato purtroppo di poter rimanere competitiva abbassando il costo del lavoro, e la cosa ha avuto un effetto drammatico. Mentre la Germania si è spostata su produzioni qualitativamente diverse, noi nello stesso periodo di tempo ci siamo mantenuti o addirittura spostati su produzioni di bassa qualità e di basso valore. Questo significa che in questi ultimi 20 anni abbiamo pensato di poter competere con la Cina, l’India e i paesi emergenti sul costo di lavoro anziché sull’aumento della produttività, e questo è stato secondo me l’errore più drammatico di tutti i nostri modelli economici e sociali.

Sociali?

La Germania ha una tradizione sociale molto più forte, i lavoratori partecipano ai consigli d’amministrazione delle grandi società e vogliono essere parte della redistribuzione della ricchezza. È una strategia che si basa sulla convergenza fra impresa e lavoratori nell’investire in attività che generano maggior profitto per le imprese, e di conseguenza un maggior salario per i lavoratori.

 

In Italia invece?

 

Da noi la soluzione è stata opposta. Abbiamo infatti scelto di competere con imprese che generano un minor profitto, ma che hanno costi del lavoro inferiori, e il risultato è quello che vediamo.

 

Come giudica invece la crescita negli ultimi anni delle retribuzioni italiane che risulta tra le più ridotte (+3,3%), anche molto più dell’Olanda (+14,7%), del Portogallo (+22%) e della Spagna (+29,4%)?

 

Anche in questo caso bisogna fare molta attenzione con quali paesi andiamo a paragonarci. È vero che Spagna e Portogallo fanno registrare un maggiore avanzamento, ma con problemi analoghi a quelli della Grecia. Diverso è invece il caso dell’Olanda, dove l’avanzamento del salario è reale, e non “drogato” da interventi pubblici. L’economia olandese ha fatto un passo in avanti, e quindi anche i salari.

 

In Italia non è così?

 

La cosa drammatica è che quando è avvenuta una crescita economica anche nel nostro Paese, quindi tra il 2000 e il 2008, non c’è stata anche una crescita salariale. Significa quindi che abbiamo aumentato i volumi, ma non la produttività, e non siamo stati in grado di ridistribuire la ricchezza ai lavoratori. Questo significa non investire sulle imprese e avere un sistema che perde competitività. Dove invece i salari sono cresciuti, come in Germania, il sistema è stato anche più competitivo. Sembra paradossale, ma non lo è affatto. Sentiamo dire spesso che le nostre imprese non sono competitive perché il costo del lavoro è troppo alto, ma non è questo il nostro vero problema, e pensare  che la competizione si faccia sul costo del lavoro è un errore davvero clamoroso.

 

Cosa pensa di quello che ha fatto e di quello che farà il governo Monti?

Sono abbastanza preoccupato, perché in questi cento giorni la politica realizzata dal governo Monti si è occupata moltissimo di mettere i conti in ordine, ma attraverso misure recessive. È molto difficile pensare a uno sviluppo se si mettono in campo politiche che colpiscono i salari reali, la capacità di consumo dei lavoratori e la stessa fiducia dei cittadini lavoratori.

 

Cosa intende?

 

Una delle grandi chiavi del successo all’estero del governo Monti è stata quella di infondere una sensazione di fiducia. Avendo messo i conti in ordine, infatti, ci percepiscono come più affidabili sotto il profilo finanziario, ma stiamo pagando questa affidabilità con una sfiducia interna. In questo periodo il tasso di fiducia nella possibilità di lavoro, di carriera e di stabilità è ai minimi storici, e per questa ragione credo che una riforma del mercato del lavoro che avvilisca ulteriormente la fiducia dei lavoratori sia un reale danno ai cittadini.

 

Cosa pensa della riforma che si sta delineando?

 

Sembra che si perda di vista la coesione interna e la fiducia dei nostri cittadini e lavoratori, che si perda di vista il modello sociale. Pochi giorni fa il governatore Draghi ha detto che il nostro modello sociale è superato, da rivedere e flessibilizzare. Ma ho la sensazione che qui si passerà presto da un dualismo del mercato a un’estensione a tutti della parte bassa del mercato duale, cioè quella che riguarda instabilità e precarietà.  Non credo che sia stata ancora fatta un’adeguata riflessione sul modello sociale che si vuole andare a costruire.

 

In che senso?

 

Che cosa vogliamo tra dieci anni? Un mercato del lavoro fatto di lavoratori licenziabili in qualunque momento perché pensiamo che questo generi maggior fiducia nelle imprese, che in questo modo assumeranno di più? Non esiste nessuno studio economico  o nessuna esperienza straniera che abbia dimostrato un aumento delle assunzioni a fronte di una riduzione delle protezioni in uscita. Prima bisogna alzare i salari, e poi casomai introdurre riforme che consentano una maggiore mobilità, ma in una situazione in cui i salari sono bassi, fare una cosa del genere rappresenta un colpo  mortale alla fiducia dei lavoratori, delle famiglie e di chi oggi è giovane.

 

 

(Claudio Perlini)    

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