Ma siamo sicuri che sia utile tutto questo can can sull’articolo 18? Stando alle dichiarazioni del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, nell’arco di poche (ma quante?) settimane la riforma del mercato del lavoro sarà completata e vi si arriverà con o senza l’accordo con le parti sociali. Riguardo la tanto contestata norma dello Statuto dei lavoratori, il ministro non sembra intenzionato ad arrivare a un’abolizione, ma vorrebbe che l’obbligo di reintegra non fosse previsto nei casi di crisi aziendale e che fosse sostituito da un indennizzo.



Elsa Fornero ha anche spiegato che saranno valutati tutti gli strumenti che possano garantire un aumento dell’occupazione e della crescita. Nobile obiettivo, ma sembra difficile che dall’abolizione di una norma possa derivare un aumento dei posti di lavoro. Tutt’al più sarebbe forse possibile andare a occupare una posizione liberata da un lavoratore licenziato e così si avrebbe un risultato a “somma zero”. Certo, l’articolo 18 potrà forse costituire un deterrente per le imprese straniere a investire in Italia, ma è pur certo che esse hanno di fronte “muri” ben più ardui da sormontare, come la complicata burocrazia, le carenti infrastrutture e l’incerta giustizia.



E quest’ultima si incrocia inevitabilmente con il tema “principe” dell’articolo 18. Sono diversi i casi di sentenze alquanto curiose che restituiscono l’immagine di estrema incertezza circa l’applicazione di questa norma. Proprio oggi Il Corriere della Sera ne descrive un caso abbastanza eloquente. Una donna, ripresa anche da alcune telecamere nascoste, è stata licenziata per aver compiuto atti vandalici negli uffici della propria azienda, che ha quindi proceduto sostenendo la linea dell’interruzione del rapporto di lavoro per “giusta causa”. Detta così, sembra a tutti evidente e lapalissiano che la lavoratrice abbia torto. Eppure, dopo quattro anni il suo ricorso viene accolto dal giudice che dà ragione al perito di parte che sostiene che la donna sia stata colta da un raptus che l’ha resa incapace di intendere e di volere. L’azienda è quindi costretta a reintegrare la lavoratrice e a versarle quattro anni di stipendi arretrati, ma non si dà per vinta e decide di ricorrere alla Cassazione. Sono passati altri quattro anni e ancora non c’è stata una sentenza definitiva. Nel frattempo, è stata avviata dall’azienda una causa contro gli atti vandalici della donna, che è stata condannata a un mese di carcere.



Non si tratta, purtroppo, di un caso isolato. Già su queste pagine Angelo Chiello aveva illustrato altri casi analoghi, se non più grotteschi, dato che lavoratori licenziati dalla stessa azienda, dopo aver presentato ricorso ex articolo 18 si sono ritrovati con destini diversi a seconda del giudice che si sono trovati di fronte.

Probabilmente non creerà più occupazione, ma un piccolo ritocco sull’articolo 18 e  alla giustizia italiana per evitare queste grandi incertezze per i lavoratori e per le imprese sarebbe una mossa che, credo, soddisferebbe tutte le parti sociali, senza per questo smantellare un diritto che, è bene sottolinearlo, nonostante la crisi non può essere eretto a totem intoccabile.