«Monti dice che tutto ciò che sta facendo il governo fa parte di “operazioni di ricerca della consapevolezza”, ma credo che oggi i giovani abbiano un impatto molto più diretto con la realtà, che li porta a essere ben consapevoli della complessità che hanno davanti e che li aspetta. In questo senso credo che non ci sia niente di monotono di fronte all’idea di un posto fisso, e credo che non si possa scartare a priori un’idea in cui una persona riesce a mantenere un lavoro per molto tempo». Dario Cavenago, Professore Ordinario di Economia e Management all’Università Bicocca di Milano, commenta in questo modo le recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio Monti riguardo il lavoro fisso. «Questo però non vuol dire – spiega Cavenago – che il lavoro non sia un percorso, quindi si può accettare l’idea che questo abbia molte tappe anche diverse tra loro, ma è necessario che in questo percorso ci sia una seria responsabilità da parte di chi deve gestire le riforme come transizione e di chi deve anche creare delle occasioni di lavoro, altrimenti diventa un gioco a somma zero in cui il problema diventa effettivamente garantire le uscite. Deve cambiare qualcosa nel modo in cui si organizza il lavoro, e deve esserci una reale compartecipazione di obiettivi.
Possiamo vedere qualcosa di positivo nelle parole di Monti?
Di positivo c’è forse una volontà di aprire questa idea di corresponsabilità per creare delle condizioni di prospettiva e mettere maggiormente a fuoco quelli che sono gli “anelli” di passaggio dal momento della formazione di base al momento della formazione che invece avviene in azienda.
Parla quindi della formazione?
Se non si agisce veramente per creare delle condizioni di formazione vera e non teorica, è chiaro che non nulla potrà cambiare, e il governo deve assolutamente avere una funzione educativa che ricrei quelle condizioni in cui una persona può entrare nel migliore dei modi nella realtà che abbiamo di fronte.
Cosa cambierebbe dell’attuale mercato del lavoro?
Credo che sul lungo periodo sia utile cominciare a muoversi dal basso e rivedere dove si formano le competenze e le capacità dei giovani, in modo da avvicinarsi di più alla realtà. Sul breve periodo, invece, credo che il problema sia quello di rivedere delle condizioni di sicurezza e flessibilità che accompagnino la persona e che la mantengano in una condizione di dignità, anche se dovesse perdere il posto di lavoro.
Cosa pensa invece dell’ “apartheid” di cui parla Monti «tra chi per caso o per età è già dentro e chi fa fatica ad entrare» nel mondo del lavoro?
Credo innanzitutto che non ci sia niente di positivo nel continuare a contrapporre il problema delle generazioni, e quindi chi ha il posto e chi non ce l’ha. Dall’altro, il far venir fuori in modo così trasparente questo problema significa porre l’attenzione non tanto sul lavoratore ma sull’efficienza delle istituzioni, che siano imprese o enti pubblici, e quindi su quali “sacche” di rendita possono creare.
Prima il viceministro Martone, poi il premier Monti: queste tanto discusse dichiarazioni possono essere in qualche modo collegate?
In entrambe le dichiarazioni si può forse vedere che il governo è sotto stress, e che quindi per questo motivo può aver commesso degli “scivoloni”. Guardando alla realtà dei giovani, alle difficoltà di uscita dall’università e alla consapevolezza di tutti coloro pronti ad entrare nel mondo del lavoro, credo che ogni parola vada pesata con attenzione. Nel momento in cui si chiede alle persone di cambiare, bisogna essere bravi anche ad aiutarle ad entrare in questo “gioco” del cambiamento, e non solo a spaventarle.
(Claudio Perlini)