La flessibilità può essere anche intesa positivamente. Laddove non sia meramente assimilabile al precariato, ma conferisca a chi ne è oggetto una serie di importanti tutele, diventa un valore. E ciò che vale, deve costare di più. Questo, in sintesi, il pensiero espresso dal ministro del Welfare in un’intervista a SkyTg24. Secondo la Fornero, in sostanza, è necessario invertire il trend per cui le imprese si giovano dei contratti flessibili per ottenere risorse a basso costo. Se esse reputano tali forme di lavoro una necessità dettata, ad esempio, da ragioni organizzative o cambiamenti produttivi, è giusto che se ne assumano l’onere. «La situazione, specie per i giovani, è estremamente preoccupante. Da padre, sinceramente, non potrei fare altro che augurarmi per mio figlio un posto sicuro. Ma l’economia, negli ultimi tempi, è cambiata a tal punto che la flessibilità è divenuta ormai un fattore imprescindibile», premette, raggiunto da ilSussidiario.net Gaetano Troina, professore di Economia aziendale presso l’Università di Roma Tre. «Sta di fatto che tale fattore – continua – non può essere lasciato in balìa della regolamentazione del libero mercato, quasi fosse un deus ed machina in grado di risolvere ogni situazione».



Detto questo, secondo il professore la proposta del ministro potrebbe avere una sua ragion d’essere. A certe condizioni. «Non è sufficiente, anche se condivisibile, che un’azienda che ha bisogno di una persona per un certo periodo di tempo, paghi di più. Questo, infatti, non risolverebbe il problema del precariato. Consentirebbe, al limite, ai lavoratori precari, in quel lasso di tempo, di essere pagati di più. Ma, al termine del contratto, il lavoratore va assistito nei passaggi successivi. Occorre, dunque, una normativa che impegni l’azienda ad accompagnarlo nella ricerca di un altro posto di lavoro».  Si potrebbe sostenere che se l’azienda deve pagare di più la flessibilità, il lavoratore potrebbe essere disposto a essere pagato di meno per godere di maggiore stabilità. «Se fosse un modo di liberalizzare il mercato del lavoro se ne potrebbe anche discutere», replica Troina.



Tali ragionamenti, tuttavia, per il professore, non tengono in debita considerazione problemi ben più impellenti di natura generale. «La realtà italiana è estremamente complessa e diversificata. Interventi sulla flessibilità di questo genere possono, al massimo, esser pensati per il nord. Ma al sud, dove il tasso di disoccupazione giovanile supera il 40%, non ha senso». Per Troina, quindi, la vera sfida occupazionale è un’altra.

«Non possiamo parlare di forme di flessibilità dove il lavoro non esiste. La priorità è riunificare, anzitutto, le due Italie sotto il profilo dell’occupazione». Come? «Il problema, come è evidente, è miscelato con quello criminalità organizzata. Per prima cosa è  necessario conoscere la realtà a cui si intende metter mano. Detto ciò, l’intervento dello Stato non potrà esaurirsi nell’implementare le forze di polizia e di controllo, ma dovrà dispiegarsi sollecitando la nascita e assistendo  sul campo le nuove imprese, senza lasciare unicamente alle autonomie ragionali la gestione del pubblico impiego».