Quasi sempre, negli ultimi anni, all’Istat è toccato l’ingrato compito di dipingere scenari a tinte fosche. Non fanno eccezione gli ultimi dati sull’occupazione che presentano una situazione, per lo meno, preoccupante. In Italia, infatti, i lavoratori con contratti a termine sono più di 2,7 milioni. Nel terzo trimestre del 2011 il precariato è cresciuto, su base annua, del 7,6% (+166 mila persone), mentre la sua incidenza sul totale degli occupati ha raggiunto il 10,3%. Percentuale che si ingigantisce se prendiamo in considerazione gli under 25, il 46,7% dei quali ha un contratto a tempo determinato. La quota scende col salire degli anni: è al 18% tra i 25 e i 34 anni, all’8% tra i 35 e i 54 e al 6,3% tra gli over 55. Corrisponde, infine, al 70% dei nuovi ingressi. Abbiamo chiesto al senatore Tiziano Treu se il quadro è inquietante come sembra
Come vanno interpretati questi dati?
La tendenza all’aumento può essere legata all’incertezza derivante dalla crisi. In questa fase, le aziende sono riluttanti a fare investimenti di lungo periodo sul personale. Dal momento che, tuttavia, l’aumento è stato tutto sommato contenuto, occorre capire se, nel tempo, il trend resterà invariato. Ovvero, se questa fase di incertezza è destinata a durare. Su questo, bisogna essere cauti. Il fatto che riguardi soprattutto i giovani, purtroppo non è una novità.
Quali sono gli aspetti più negativi legati a queste forme contrattuali?
Il problema non è tanto la precarietà in sé, quanto la sua durata. Più il periodo di intrappolamento in queste forme lavorative diventa lungo, e più i “guai” aumentano geometricamente. Tre anni a tempo determinato, quando si è giovani, possono anche andar bene. Sempre meglio che niente. L’alternativa, infatti, sarebbe non avere lavoro. Ma, dopo 4 o 5 anni, ci si ritrova nell’impossibilità di essere in grado di metter su famiglia.
Cosa propone, in tal senso?
I contratti di apprendistato, ad esempio, benché siano a termine, consentono al giovane di ottenere delle competenze, di imparare; aumentano, quindi, le possibilità di essere in seguito stabilizzati e andrebbero incentivati. Un’altra misura importante è l’incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato grazie allo sgravio dell’Irap per le aziende che le praticano.
Cosa ne pensa della proposta della Fornero di far costare di più alle imprese i contratti a termine?
In parte è già così: i contratti a tempo indeterminato, infatti, costano meno e, di conseguenza, quelli a tempo determinato costano relativamente di più. Si tratta, infatti, dei due lati della stessa medaglia. Tuttavia, effettivamente, quelli a termine potrebbero essere caricati ulteriormente.
Pensa che, in ogni caso, abbia ragione Monti quanto parla del posto fisso come di qualcosa che non esiste più?
Anche quando un lavoratore è stabilizzato non possiamo certo parlare di posto fisso. Le instabilità economiche, infatti, rendono precario anche il posto a tempo indeterminato.
Quindi? Come raggiungere la stabilità?
La premessa a ogni ragionamento è che il motore dell’economia riparta, e che si generi sviluppo. Poi, la riforma del mercato del lavoro potrà aiutare. Detto questo, la flessibilità non va intesa solo in entrata o in uscita, ma può essere interna al rapporto.
Cosa intende?
È possibile che l’occupato, a seconda delle necessità, possa lavorare di meno o di più. Vi sono una serie di strumenti quali il part-time, i turni o gli straordinari che consentirebbero questo genere di flessibilità. In Germania, ad esempio, è normale applicare questi tipi di contratti. Sono estremamente produttivi e non rendono necessario scomodare le norme sui licenziamenti.
Eppure, l’attenzione, oggi, è prevalentemente concentrata sulla flessibilità in uscita. Non si parla d’altro, infatti, che di articolo 18
Ne parliamo da anni, ma non è certo la questione determinante. Una volta abolito o modificato, i problemi relativi a incertezza, precarietà e assenza di lavoro resterebbero.
Vi è, infine, un altro problema sottolineato dall’Istat: quello delle “false” partite Iva.
Sarebbe sufficiente farle anch’esse costare di più, assimilandole fiscalmente al lavoro subordinato. E implementare i controlli.
(Paolo Nessi)