La definisce «l’uovo di Colombo» nella trattativa sull’articolo 18, ma Giorgio Santini, Segretario generale aggiunto della Cisl, non nasconde che la proposta presentata dalla sua organizzazione per una “manutenzione” della tanto discussa norma può anche aiutare a «sgomberare il campo da un falso problema: il tavolo tra sindacati e Governo non riguarda i licenziamenti, ma le condizioni per creare più occupazione. Quel che ci interessa è cercare di migliorare le forme di assunzione, l’ingresso dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, così da contrastare la gravità della crisi. Invece, tutta l’attenzione si sta concentrando sull’articolo 18. Speriamo con questa proposta di sciogliere ogni dubbio in merito».



Ci può spiegare cosa prevede la vostra proposta?

Il presupposto è che l’articolo 18 rimanga nella sua funzione originaria: tutelare i dipendenti dalle discriminazioni e dagli abusi da parte dei datori di lavoro, soprattutto per quel che riguarda il loro comportamento soggettivo. Invece, per quel che riguarda i licenziamenti per giustificati motivi di tipo oggettivo, come il fatto che l’azienda si trovi in difficoltà e senza la possibilità di offrire più un lavoro, riteniamo che si debba utilizzare la legge 223/1991, che prevede una precisa procedura con la convocazione dei sindacati da parte dell’azienda, la verifica dell’effettiva sussistenza delle difficoltà economiche e l’erogazione di un’indennità di mobilità.



Perché è necessario questo passaggio?

Attualmente questa legge si può applicare nel caso di licenziamento di almeno cinque persone di un’unità produttiva. Questo ha fatto sì che nel tempo i lavoratori sottoposti a licenziamenti individuali per cause oggettive avessero a disposizione come strumento di tutela il ricorso al giudice ex articolo 18. C’è stata quindi un’estensione “impropria” dell’utilizzo di questa norma. Anche perché la legge precedente, la 604/66, distingueva tra le cause soggettive e oggettive di licenziamento, mentre la formula “giusta causa o giustificato motivo” dello Statuto dei lavoratori no. La nostra proposta serve quindi a sanare questa “distorsione”.



Lei ha appena fatto riferimento ai ricorsi contro i licenziamenti ex articolo 18: cause che spesso durano molti anni.

Sì, questa è un’altra distorsione che intendiamo sanare. Oggi, infatti, se una causa dura 5 anni e se il datore di lavoro perde, oltre alla reintegra (o alle 15 mensilità che l’ex dipendente può chiedere in sostituzione), deve versare 5 annualità di stipendio al lavoratore. Non c’è quindi nessuna proporzione tra la pena “fisiologica” e quella che si determina per il ritardo del processo. Motivo per cui in molti insistono sull’abolizione dell’articolo 18. Per questo chiediamo che i processi relativi ai licenziamenti abbiano una durata ragionevole, che potrebbe essere fissata in un anno. Abbiamo individuato come strumento per questo intervento il ricorso alla procedura d’urgenza prevista dall’articolo 700 del codice di procedura civile.

La Cgil è apparsa molto determinata a evitare qualsiasi intervento sull’articolo 18. Pensa che possa condividere e appoggiare la vostra proposta?

Non so dirlo con certezza, ma penso di sì, perché si tratta di una proposta di buon senso: non si toglie nulla a nessuno, ma si fa funzionare meglio uno strumento di tutela. Anzi, nel caso di licenziamenti individuali per motivi oggettivi, la tutela viene allargata. Attualmente, infatti, un singolo lavoratore ha solo la chance di ricorrere al giudice, ma se perde la causa non ha niente in mano. Con la procedura di legge avrebbe invece un’indennità di mobilità, oltre alla verifica della sussistenza della “ragione economica” dell’azienda. È difficile pensare quindi che questa proposta possa essere respinta.

 

In questi giorni sta emergendo un’ipotesi per favorire la Cgil: una riforma del mercato del lavoro in due fasi, con un accordo iniziale con il Governo che lasci fuori l’articolo 18. Può essere una soluzione per evitare spaccature e non allungare i tempi?

 

Mi pare un’ipotesi molto improbabile. Piuttosto è meglio fissare una gerarchia di priorità tra i temi sul tavolo: prima l’occupazione, poi la flessibilità, il cui utilizzo deve costare di più, quindi la riforma degli ammortizzatori sociali e, per ultimo, l’articolo 18. Ma si tratterebbe di mantenere un’unica “fase”, senza alcuna divisione in due tempi.

 

Lei all’inizio segnalava il fatto che sull’articolo 18 si sta concentrando troppa attenzione, a discapito degli altri temi che state affrontando con il Governo. Leggendo anche la stampa internazionale, sembra esserci però una certa pressione dall’estero affinché si riformi questa norma.

 

Ho notato anch’io, ma penso che a livello internazionale registrino anche quello che diciamo noi in Italia. In questo senso, come dicevo prima, dobbiamo sgombrare il campo dagli equivoci: conoscendo il mercato del lavoro dall’interno, non posso dire che l’articolo 18 non abbia un peso, ma in realtà è molto inferiore a quello che si dice.

 

(Lorenzo Torrisi)

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