Per l’ennesima volta, oggi pomeriggio, governo a parti sociali si daranno appuntamento per dirimere talune controversie relative alla riforma del mercato del lavoro. E, tanto per cambiare, a tenere banco sarà ancora una volta,  con ogni probabilità, l’articolo 18. Si discuterà della sua abolizione, del suo superamento, della sua modifica e della sua immodificabilità. E del modello tedesco. È l’ipotesi che, attualmente, va per la maggiore. In sostanza, laddove il giudice ritenesse illegittimo il licenziamento per motivi disciplinari, il lavoratore avrebbe diritto al reintegro o all’indennizzo pari a 18 mensilità. Nel caso di illegittimità per motivi economici, invece, solo all’indennizzo. «L’articolo 18 non è la priorità, né figura all’interno della top ten delle cose da fare. È un tema sul quale si è sviluppata una sorta di ossessione tale per cui sembra che vi si debba mettere mano a ogni costo. Ma il fatto che non sia urgente cambiarlo emerge anche dalla quantità e dalla diversità delle proposte di riforma; è evidente, infatti, che non si ha un’idea ben precisa di cosa sia effettivamente meglio dell’articolo 18», afferma, anzitutto, Maurizio del Conte, docente di Diritto del lavoro presso la Bocconi di Milano raggiunto da ilSussidiario.net. Secondo il quale il modello tedesco, in ogni caso, potrebbe funzionare solo in una determinata circostanza: «Se fossimo in Germania». Lì, infatti, sono presenti due condizioni che in Italia non sussistono. La prima: «All’interno degli organi di governance delle imprese siedono anche i rappresentanti dei lavoratori.  Il loro intervento preventivo svolge un’azione di filtro. Questo fa sì che le società tedesche considerino il licenziamento, anche quello disciplinare di cui si parla oggi, come l’extrema ratio». La seconda: «Posta questa forma di presidio, la giurisprudenza tedesca, nella stragrande maggioranza dei casi, pur avendo la facoltà di scegliere tra l’indennizzo o la reintegrazione, sceglie di norma il primo. Il giudice tedesco decide, prevalentemente, tenendo bene a mente il turbamento alla buona organizzazione aziendale che potrebbe produrre il reintegro».



Se un tale modello fosse introdotto, in Italia avremmo un aumento dell’incertezza. «È evidente, tanto per cominciare, che il giudice italiano non potrebbe far conto sul filtro della realtà tedesca; inoltre, è ragionevole supporre che la sua discrezionalità nel decidere se optare per il risarcimento o per la reintegrazione sarebbe condizionata più dal contesto geografico e congiunturale che non da elementi di fatto». In pratica: «Già oggi le reintegrazioni sono più probabili al Sud e in situazioni di crisi congiunturale acuta». Il motivo è scontato e umanissimo: «Il giudice è sensibile a non lasciare il lavoratore privo di un salario laddove non vi siano alternative di mercato». 



Se così fosse, tuttavia, si determinerebbe un grave rischio: «Si accentuerebbero l’incertezza e la discriminazione tra zone dove il mercato del lavoro è più debole e dove è più forte. Non credo che sia questo ciò di cui le aziende hanno bisogno per investire. Né, tantomeno, gli investitori stranieri che chiedono certezza a non la devoluzione al giudice di ulteriori poteri discrezionali che renderebbero anche le trattative in sede di conciliazione molto più difficili». Secondo Del Conte, in conclusione, «si sta girando attorno al problema senza andare al nocciolo, ovvero definire dettagliatamente le nozioni di licenziamento disciplinare, licenziamento economico, giusta causa e giustificato motivo». 

Leggi anche

SPILLO CGIL/ I 4 referendum che svelano la "realtà parallela" di Landini & C.