Il confronto tra le parti sociali e il ministro sulla riforma del lavoro, ieri, una novità l’ha partorita. Non si è parlato solamente di riordino dei contratti, abolizione, superameno o inamovibilità dell’articolo 18, revisione degli ammortizzatori sociali o eliminazione della Cigs (peraltro, la Fornero sembra intenzionata a fare marcia indietro e lasciarla in funzione); nel dibattito si è introdotto un nuovo elemento: l’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi). In sostanza, consiste in un sussidio destinato a una platea dilavoratori disoccupati particolarmente amplia. Sostituirà quanto non rientra nella cassa integrazione ordinaria e ingloberà indennità di mobilità, incentivi di mobilità, disoccupazione per apprendisti, una tantum co.co.pro e altre indennità Sarà necessario avere almeno 52 settimane di contribuzione nell’arco dell’ultimo biennio, e sarà fruibile dai disoccupati ex-dipendenti di aziende pubbliche e private, con contratti a tempo determinato e indeterminato, o flessibili. Ammonterà a circa 1.119 euro, che caleranno del 15% dopo i primi 6 mesi e di un altro 15% dopo altri 6. Durerà dagli 8 ai 12 mesi e fino a 18 per i lavoratori over 58. L’aliquota per le imprese, infine, sarà dell’1,3%, incrementata al 2,7% nel caso di lavoratori precari.
La misura, di per sé, è attesa da centinaia di migliaia di lavoratori. Resta da capire se il governo riuscirà a far fronte a una copertura del genere. «Occorre fare i calcoli e capire quanto effettivamente potrebbe costare», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Francesco Daveri, docente di Scenari economici all’Università di Parma. Facciamo, quindi, due conti: «Poniamo il caso estremo – afferma -, che tutti i disoccupati possano beneficiare del provvedimento. Essendo circa due milioni, sarebbero necessari poco più di due miliardi di euro. Assumendo, invece, un’ipotesi più realistica, non tutti potranno beneficiarne. La lista delle restrizioni, infatti, non è corta e non credo che tutti prenderanno 1.119 euro. Quindi, ragionevolmente, l’esborso per l’erario si potrebbe aggirare attorno al miliardo di euro».
Sembra, in ogni caso una cifra piuttosto elevata. «Il criterio secondo cui lo Stato, dal momento che sta cercando di risparmiare e risanare i conti, non possa aprire nuovi capitoli di spesa non è contemplabile. Ci sono, infatti, delle spese irrinunciabili e del tutto plausibili perché sostituiscono voci che sarebbero eliminate». Venendo al merito: va da sé che il sussidio, di per sé, non è sufficiente. «Indubbiamente dovrà favorire, contestualmente, quelle attività che riducano le probabilità del disoccupato di gravare, negli anni a venire, sulle spalle dello Stato e delle imprese. Anzitutto, quindi, dovrebbe essere vincolato alla dimostrazione da parte del disoccupato di essere attivamente alla ricerca di un altro lavoro. Dovrà, inoltre, essere legato a pratiche tese a riqualificarlo per un altro contesto, laddove il suo lavoro di prima non fosse più disponibile». Sui corsi di formazione obbligatoria Daveri ha qualche dubbio. «Non esiste una correlazione automatica con l’accesso al lavoro. Altrimenti, sarebbe sufficiente produrre corsi di formazione per tutti».
Come sempre, nell’incontro di ieri, ha tenuto banco anche l’articolo 18. L’idea che va per la maggiore è quello di riformalo in senso tedesco. Ovvero: sarà il giudice del lavoro a stabilire, in caso di licenziamento per motivi disciplinari, se il lavoratore ha diritto al reintegro del posto di lavoro oppure ad un indennizzo fino a 18 mensilità. In caso di licenziamento illegittimo per motivi economici avrà diritto solamente ad un indennizzo. «Credo che la pratica sortirà come effetto quello di implementare, semplicemente, il lavoro dei giudici», afferma Daveri.
È pur vero che l’articolo 18, così com’è stato ideato, esiste solo in Italia. Si tratta di capire, in sostanza, se è possibile garantire al lavoratore forme di tutele paragonabili a quelle degli altri Paesi, senza far pesare sulle aziende l’obbligo di reintegro». Secondo il professore, un metodo c’è: «L’articolo 18 andrebbe pragmaticamente superato fornendo, ad esempio, tutele progressive ai lavoratori tali per cui liberarsene dovrebbe costare alle aziende di più, man mano che si va avanti nel tempo». Un ultima misura potrebbe consistere nella «compartecipazione delle aziende agli oneri relativi alla disoccupazione in misura superiore all’attuale. Dovrebbero, cioè, accantonare delle risorse per partecipare, assieme allo stato, all’erogazione dell’indennità per il lavoratore che dovessero lasciare a casa».