Poniamo il caso che un lavoratore abbia fino a 39 anni e sia stato messo in mobilità; riceverebbe un’indennità per un periodo di 12 mesi, di 24 se fosse un lavoratore del Sud. Se l’ipotesi di introdurre l’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego proposta dalla Fornero, prenderà piede, i mesi di copertura diventerebbero 12, 18 per il Sud. Mettiamo il caso, invece, che il lavoratore abbia più di 50 anni; secondo l’attuale regime sarebbe tutelato per 36 mesi, per 48 al Sud. Con l’Aspi i mesi sarebbero 30 (18 a regime) e 48 al Sud (18 a regime). Va da sé che con lo strumento studiato per sostituire tutte le forme attuali di sostegno al reddito (salvo la cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria nei casi di ristrutturazione) sarebbero in molti a essere penalizzati. Qualcuno, tuttavia ci guadagnerebbe. Chi percepisce un assegno di disoccupazione, erogato attualmente per 8, massimo 12 mesi, ne beneficerebbe per almeno 12 mesi. E il suo importo sarebbe più alto. Restano, a questo punto, da soppesare i pro e i contro. Ma i calcoli sono tutt’altro che semplici. «C’è da dire, anzitutto, che il diritto all’Aspi sarà calcolato secondo i requisiti dell’indennità di disoccupazione (due anni di anzianità contributiva e 52 settimane di contribuzione effettiva nell’ultimo biennio); si tratta, quindi, di un requisito più restrittivo di quello previsto per la mobilità», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Emmanuele Massagli, vicepresidente di Adapt. «L’efficacia di un intervento di questo genere – continua – andrebbe valutata considerando quanti lavoratori potrebbe coprire e con quale spesa, rispetto al regime vigente». Ebbene: «Stando alla logica di fondo di riassetto del bilancio, è probabile che il numero di lavoratori coperti e la spesa prevista saranno inferiori rispetto alla modalità precedente». Da qui il dubbio dei sindacati. «Ritengono, infatti, che se si anticipa la riforma in un periodo di crisi,  diminuendo il numero di lavoratori coinvolti, si determini un problema sociale». La proposta di riforma degli ammortizzatori sociali, oltretutto, stando alle recenti dichiarazioni degli attori coinvolti, non tiene in debita considerazione alcuni meccanismi imprescindibili per non scadere nel mero assistenzialismo. «Si parla poco del collegamento necessario tra la politica passiva e attiva. Se si decide di dare un’indennità di disoccupazione, di entità tutto sommato potenzialmente rilevante, occorre impedire che il lavoratore sia incentivato ad avvalersi del contributo finché può e, poi, accettare un lavoro quanto il sussidio scade».



Lo strumento, spiega Massagli,  in realtà, già esiste. «Chiunque percepisce un trattamento di sostegno al reddito è obbligato a firmare la cosiddetta Dichiarazione di immediata disponibilità (Did) che impone di accettare un’eventuale offerta di lavoro congrua o un percorso di riqualificazione». Attualmente, tuttavia, l’imposizione è solo formale. 



Ecco cosa accade: «La Did si firma presso i Centri per l’impiego o presso le Agenzie per il lavoro che, spesso, laddove il lavoratore rifiutasse un’offerta, non procedono alla comunicazione all’Inps. Il che, essendo la regia separata, è una pratica necessaria perché l’amministrazione pubblica possa agire di conseguenza».  

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