Quello dei “licenziamenti” è il capitolo ancora da affrontare, l’ultimo, il più delicato della riforma del lavoro. Sarà rivisto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e i tempi delle cause di lavoro dovrebbero essere velocizzati, cosa peraltro già prevista dal “Collegato Lavoro” del 2010. Il diritto di chi è stato licenziato a essere reintegrato nel posto di lavoro sarà limitato. Per il governo e Confindustria dovrebbe restare solo per i licenziamenti discriminatori. In tutti gli altri casi -licenziamenti per motivi economici e disciplinari – il lavoratore riceverebbe invece un indennizzo economico proporzionale all’anzianità di servizio (forse con un tetto pari a 18 mesi di retribuzione, come nel modello tedesco) deciso dal giudice o da un arbitro scelto tra le parti. L’esecutivo, tuttavia, sembrerebbe disponibile a rivedere e a rafforzare le tutele per i lavoratori delle aziende in regime di tutela obbligatoria, ovvero quelle con meno di 15 dipendenti per cui non vale l’articolo 18.



La Cisl vorrebbe che uscissero dal diritto al reintegro solo i licenziamenti per motivi economici (scatterebbe un indennizzo secondo una procedura sindacale, come per i licenziamenti collettivi), ma non quelli disciplinari. Naturalmente la Cgil non è d’accordo con la riforma dell’articolo 18, ma favorevole a stabilire norme per accelerare i processi riguardanti i licenziamenti. Le nuove regole sui licenziamenti, in ogni caso, si applicheranno inizialmente ai nuovi assunti, ma non è escluso che dopo un paio d’anni siano estese a tutti.



Nella lettura delle eterogenee soluzioni prospettate da Governo e Parti sociali non si può tuttavia dimenticare che la situazione regolatoria allo stato presente nel nostro ordinamento è atipica rispetto a quella presente nella maggior parte dei paesi europei a noi assimilabili sia in termini di economia, sia con riferimento alle ulteriori e diverse tutele normative in materia di mercato del lavoro.

In tal senso è opportuno rammentare che, nonostante la pressoché generalizzata presenza di normative a tutela del prestatore nella regolamentazione delle modalità di recesso da parte del datore di lavoro, allo stato attuale ben pochi paesi in Europa (solo Austria, Portogallo, Grecia e Svezia) prevedono barriere alla flessibilità in uscita analoghe a quelle italiane con riferimento agli effetti emergenti da un illegittimo licenziamento previste con l’articolo 18.



Nella maggior parte degli Stati membri, e fatti salvi i casi sovra citati che si riscontrano quali vere e proprie eccezioni, gli effetti di un illegittimo licenziamento risultano essere prevalentemente riconducibili a due macro-tipologie: da una parte, si annoverano i paesi in cui si riscontra il prevalere della soluzione risarcitoria diretta (Belgio, Danimarca, Finlandia, Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo); dall’altra, quelli in cui prevale una soluzione cosiddetta “mista”, ove il datore di lavoro può scegliere tra il reintegro o il pagamento di un’indennità pre-individuata (soluzione quest’ultima di gran lunga più utilizzata): è questo il caso di Francia, Germania, Olanda e Spagna.

Anche alla luce dell’analisi comparata, è di tutta evidenza come la situazione italiana sia atipica nel panorama internazionale e a poco valgono le osservazioni di coloro che sostengono che la reintegra non sia un’invenzione del solo Bel Paese. Se è pur vero, infatti, che la reintegra, come soluzione possibile, è prevista nella maggioranza degli Stati dell’area europea, è altresì vero che l’applicazione della stessa rarissimamente è imposta coattivamente al datore di lavoro, salvo scelta difforme del prestatore, come accade in Italia nelle aziende con più di 15 dipendenti, ma possibile a scelta del datore quale alternativa al versamento di una congrua indennità individuata da ordinamento a ordinamento.

Per completezza si noti infine che in quei paesi non considerati nell’analisi che precede, ovvero i cosiddetti Paesi dell’allargamento 2004 e 2007, se pure si evince una maggiore propensione per la soluzione della reintegra, non si potrà non notare, contestualmente, una maggiore flessibilità nelle ragioni che giustificano la legittimità del recesso. In tal senso, si pensi al caso bulgaro, ove, in caso di riduzione del numero di lavoratori o di riduzione dell’attività, il Codice del lavoro prevede che i lavoratori da licenziare debbano essere scelti sulla base di due criteri, l’abilità e la produttività, in concorso tra loro e ben differenti da quelli allo stato applicati in Italia, ove prevalgono criteri di età, anzianità e carichi familiari.