Pian piano la riforma del mercato del lavoro sta assumendo una definizione sempre più precisa, salvo clamorose smentite o marce indietro dell’ultimo minuto. Il tema più spigoloso – anche se non necessariamente il più determinante – resta quello dell’articolo 18. L’ipotesi che va per la maggiore è quella di una sua sostanziale modifica che vedrebbe il benestare di parte del mondo sindacale. Anzitutto, il diritto al reintegro stabilito dall’attuale disciplina resterebbe in vigore solo nei casi di licenziamenti discriminatori. Per quelli economici sarebbe corrisposto solamente un indennizzo, mentre per quelli disciplinari sarebbe conferita al giudice potestà di optare per il reintegro o l’indennizzo; quest’ultimo, in ogni caso, non potrebbe superare 24 mensilità. «Nel suo complesso, la proposta sembra vicina a un buon punto di mediazione», afferma, contatto da ilSussidiario.net Pietro Antonio Varesi, professore di Diritto del lavoro presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica. «Non incide, tuttavia, sul problema fondamentale. La chiave di volta affinché il sistema funzioni consiste nella modifica del processo giudiziario, attraverso una procedura d’urgenza che consenta, nell’arco di pochi mesi, sia al lavoratore che al datore di lavoro, di avere la certezza del diritto».



Prescindendo da questo principio, la misura relativa al pagamento di 24 mesi «risolverebbe una delle criticità delle aziende, che sarebbero alleggerite di un problema, ma penalizzerebbe in maniera inaccettabile i lavoratori». Per il resto, secondo il professore, il modello tedesco rappresenterebbe una novità positiva. «Non vincola il giudice a una norma, ma gli dà facoltà di verificare se sussistano le condizioni per penalizzare il datore di lavoro o tener conto del fatto che, da ambo le parti, ci siano stati comportamenti poco encomiabili tali per cui occorre individuare una sanzione adeguata e non particolarmente punitiva».



Resta il fatto che, secondo il professore, si tratta di una battaglia ideologica. «Una battaglia di potere interna all’azienda, per la precisione. Se l’impresa ha la possibilità di far capire al lavoratore che lo può cacciare senza ragione, quando vuole, pagando un prezzo tranquillamente sopportabile, l’equilibrio è decisamente spostato a suo favore. Non possiamo, d’altro canto, fare finta che non esistano casi in cui  la lentezza della giustizia ha determinato fardelli insopportabili per l’azienda».

In ogni caso, è opinione comune che la riforma dell’articolo 18 favorirebbe, prevalentemente, le aziende. Servono, dunque, misure compensative per i lavoratori. «Oltre agli ammortizzatori sociali, occorrerebbe far funzionare meglio il sistema di formazione continua che, oggi, è prevalentemente a vantaggio delle imprese. L’impresa fa un piano di formazione, lo presenta al suo fondo interprofessionale e se lo fa finanziarie». 



Il sistema è carente sull’altro fronte. «Il lavoratore dovrebbe aver facoltà, laddove avesse interesse a migliorare le proprie competenze, di presentare un progetto di crescita all’azienda, chiedendo al fondo interprofessionale di formazione di approvarglielo. Questo, in Francia, è automatico. Esiste il congedo individuale di formazione e rappresenta un diritto. Da noi la possibilità esiste, ma rappresenta una concessione da parte dell’azienda».