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Fino a oggi le politiche di welfare nel nostro Paese sono state concepite quasi esclusivamente come forme di assistenza passiva di aiuto alle persone, con confini temporali spesso indefiniti. Certamente la collettività, rispetto alle necessità sempre più urgenti di reddito, lavoro e formazione, deve fornire un supporto in chiave sussidiaria, laddove questi bisogni perseguano il fine di sostenere la dignità della persona e uno sviluppo armonico della nostra società. Questa è una necessità sociale, ma il punto cruciale è dare una risposta adeguata alla domanda su cosa debba intendersi realmente per aiuto. In altre parole: quale contenuto desideriamo che abbia il sostegno alla persona?



L’esperienza comune insegna, ad esempio, che aiutare i propri figli svolgendo i compiti al loro posto o insegnandogli a copiare o a individuare sotterfugi per ingannare l’insegnante può anche risolvere il problema contingente, ma rischia di crearne uno molto più grave. Aiutare infatti implica sempre una finalità educativa e questo vale anche per la soluzione dei bisogni ricompresi nel concetto di welfare. Aiutare a risolvere un bisogno significa, quindi, facilitare la messa in moto della persona affinché emerga il meglio di sé, sia in grado di sviluppare le potenzialità individuali e, il più possibile, una condizione di autonomia, fino a metterlo nelle condizioni di dare un contributo al bene di tutti.



La crisi economica e sociale che stiamo affrontando rappresenta, da questo punto di vista, non solo una sfida, ma soprattutto un’opportunità: rende, infatti, assolutamente necessario uscire dalla logica di aiuto fine a se stesso – che ha caratterizzato tanta storia recente – in forza della quale il supporto fornito alle persone si riduce a una forma di assistenza passiva incapace di “costruzione” autentica, se non addirittura mirata a ottenere talvolta quale contropartita una mera simpatia elettorale. Al contrario, sviluppare forme di sussidio in grado di mettere in moto risorse, competenze e creatività della persona significa anche trasformare il denaro destinato a questo scopo da una forma di consumo “a fondo perduto”, in un investimento, quindi in una risorsa capace di creare valore aggiunto e produttività anche nel medio e lungo termine.



Adottare questa logica e quindi passare da politiche passive a politiche attive, da forme di sussidio assistenziale a forme di investimento per rendere il sistema più efficiente, paradossalmente proprio in un momento in cui si fa di tutto per individuare validi “driver” di crescita, costituisce una delle principali leve per lo sviluppo e per il miglioramento del nostro Prodotto interno lordo.

Se il nostro Paese vuole tornare a essere un soggetto trainante per l’economia mondiale – ruolo che ci compete per visione e cultura – non può permettersi che il posto di lavoro sia garantito in modo deresponsabilizzante e improduttivo o che il sussidio di disoccupazione costituisca un incentivo all’inattività, ma, al contrario, deve adottare strumenti in grado di supportare temporaneamente uno stato di bisogno (l’assenza di un’occupazione), riqualificando allo stesso tempo le persone per “rilanciarle” in una nuova sfida.

Da ciò discende la necessità di dotarsi di strumenti adeguati e intermediari efficienti. Strumenti che contribuiscano realmente a far uscire il nostro Paese dal calo di aspettative in cui si trova e che aiutino le persone a soddisfare e valorizzare il proprio desiderio e impegno, così che quello slancio di costruzione che connota ciascuno di noi possa essere nuovamente attratto in modo libero e creativo verso nuove forme di impegno personale, che possano sfociare in opportunità lavorative adeguate. Questa è la vera “partita” che dobbiamo giocare. In caso contrario la ricchezza di talenti di cui siamo dotati e di esempi positivi generati negli anni rimarranno sempre più sepolti sotto il peso di una irragionevole inerzia.

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