E se per risolvere il problema della disoccupazione chi ha un posto di lavoro fosse tenuto a cederlo per un certo periodo, diciamo circa un decimo del totale, a chi non lo ha? Chissà cosa avrebbero detto i commentatori se, tra le misure incluse nella sua riforma del lavoro, il ministro Fornero (come ama farsi chiamare) ne avesse prevista una del genere. Probabilmente avrebbero rilevato l’assurdità di un provvedimento che, anziché estendere il coinvolgimento nel mercato del lavoro a chi ne è escluso, mirasse a tenere ferma la somma zero dell’occupazione disponibile. Eppure, in pochi forse muoverebbero un simile rilievo se un altro provvedimento, effettivamente incluso nella riforma (per ora in maniera puramente sperimentale), rivelasse di essere fondato su un principio analogo. Stiamo parlando del congedo di paternità obbligatorio.



Si tratta di un punto d’attenzione particolare per il ministro, che è tornata sul tema anche in occasione della presentazione della riforma. Partendo dal condivisibile presupposto che la genitorialità sia un impegno da condividere, l’ipotesi al vaglio – della quale non sono stati ancora resi noti i dettagli – sarebbe quella di estendere il periodo di congedo obbligatorio per i padri, che un progetto di legge approvato dalla Commissione Lavoro della Camera oggi fisserebbe in tre giorni appena. Ma al contrario della cosiddetta astensione facoltativa, già prevista per entrambi i genitori, quella obbligatoria ha un grosso difetto: prevede un costo non indifferente per le imprese, dal momento che il soggetto che ne gode percepisce un’indennità pari al 100% della retribuzione, di cui il 20% a carico del datore di lavoro – nel nostro caso, si tratta di una retribuzione maschile, in media superiore a quella femminile anche a parità di ruolo e anzianità. E in un momento, e in un contesto, nel quale le imprese non vedono affatto di buon occhio l’idea di sobbarcarsi un simile onere tra gli altri, non sarebbe facile difendere la proposta.



A meno che non si tratti di una misura a costo zero, coperta con gli stessi fondi attualmente già a disposizione del Ministero del Lavoro, e stanziati per provvedimenti analoghi. Ma dove reperire le risorse, data la scarsità alla fonte? L’idea, già nell’aria  da qualche tempo e ribadita da un blog de Il Corriere della Sera, sarebbe quella di intervenire sulla durata del congedo facoltativo, riservato a entrambi i genitori ma di fatto goduto in maggioranza dalle madri, riducendolo per finanziare i giorni di astensione obbligatoria paterna. Insomma, come ha efficacemente sintetizzato Annalena Benini su Il Foglio, si tratterebbe di togliere giorni di congedo alle madri, per darli ai padri, in nome del (discutibile) principio delle pari opportunità.



Le citazioni degli esempi virtuosi tratti dall’Europa, come sempre in questi casi, si sprecano: in primis quello scandinavo. Eppure, vale la pena di ricordarlo, se è vero che nella sempre invocata Svezia i padri dispongono di un congedo obbligatorio di 11 settimane, è anche vero che entrambi i genitori possono contare su altre 51 settimane (contro le 12 italiane) di astensione facoltativa a loro disposizione, retribuita all’80% (contro il 30% italiano). Un periodo sufficiente a distribuire la cura lungo la prima infanzia, lasciando liberi i genitori di gestirla come credono per un tempo più che ragionevole.

Ma almeno un intervento del genere bastererebbe a raggiungere lo scopo dichiarato – quello di incoraggiare i padri a condividere la cura dei figli? Anche qui viene in soccorso un (contro)esempio europeo: se nell’osannata in Francia i 15 giorni di congedo obbligatorio per i padri sono una realtà, non sembrano essere granché serviti a sensibilizzarli alla condivisione della cura. Secondo una indagine dell’EIRO (European Industrial Relations Observatory) di Dublino, risalente al 2007, il tasso di utilizzazione di congedi parentali facoltativi da parte degli uomini è pari all’1%, più basso di quello italiano (pari al 7%). Ancora, secondo un sondaggio Eurobarometer sulle inclinazioni nei confronti dei congedi parentali, la percentuale di padri francesi che non ha goduto dell’astensione facoltativa è di poco inferiore a quella dei padri italiani (85% vs. 87%); ma mentre il 4% di questi ultimi starebbe considerando di richiederla per uno dei suoi figli, questa percentuale si abbassa al 2% per i francesi. Per giunta, la consapevolezza mostrata dal campione intervistato verso la necessità di una cura condivisa dei figli è esattamente la stessa nei due casi.

Torniamo all’esempio iniziale: per il congedo di paternità, così come per il posto di lavoro ceduto, la priorità sarebbe conservare la somma zero dei costi – e poco importa se questo significa violare un diritto in nome di un altro, costringendoli a mettersi in concorrenza. Ma stavolta il caso si rivelerebbe ancora più insostenibile: se di due lavoratori alle prese con lo stesso ruolo si può assumere l’intercambiabilità, non altrettanto accade dei due genitori. Sostituire, invece che aggiungere, qui significa sorvolare allegramente sulla non sostituibilità dei due termini – non solo in termini di “dettagli” biologici (le madri allattano, a dispetto di chi ripropone la scenetta dei papà alle prese con i biberon così come con i pannolini, dimostrando di saperne assai poco di entrambi), ma di desideri, attitudini, inclinazioni, che – piaccia o no – sono diversi.

Il ruolo del padre e della madre, in particolare nei primi mesi di vita, è tutt’altro che sovrapponibile: negarlo, sottraendo la possibilità di curare i figli alle madri per attribuirla ai padri, rappresenterebbe un ulteriore passo nella direzione dell’omologazione e dell’indifferentismo di genere, che con la conciliazione famiglia-lavoro, con il rispetto delle scelte e con la libertà hanno sempre meno a che fare.