Il governo è andato per la sua strada sul nodo più caldo della trattativa con le Parti sociali. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, è stato perentorio: “Per il governo la questione sull’articolo 18 è chiusa”. Lo schema scelto sui licenziamenti innova per quanto riguarda quelli disciplinari ed economici, lascia invariata la disciplina dei discriminatori. Dato il succedersi di giudizi e opinioni provenienti dalle diverse parti su questa riforma, forse è bene fare un po’ di chiarezza. Le novità, innanzitutto, riguardano tutti i lavoratori, anche quelli attualmente assunti, con decorso dal momento in cui entrerà in vigore la legge.
Come ha ribadito il Ministro Fornero, il licenziamento discriminatorio “è nullo, è come non fosse mai avvenuto” per qualunque tipo di impresa; rimane quindi invariata la disciplina allo stato applicata che prevede, con la riconduzione del licenziamento a motivi discriminatori, l’applicazione della reintegra per tutte le imprese, indipendentemente dal numero dei dipendenti. Diverse saranno invece le conseguenze nel caso di illegittimità nei licenziamenti cosiddetti economici, per esempio nel caso di crisi dell’azienda ossia per “una ragione oggettiva”, per i quali sarà previsto un indennizzo da 15 a 27 mensilità. Mentre per i licenziamenti disciplinari sarà il giudice a decidere, non è chiaro in base a quali circostanze oggettive: il reintegro, nei casi gravi, o una indennità da 15 al massimo di 27 mensilità, tenendo conto dell’anzianità del dipendente allontanato. È stata inserita anche una tassa sul licenziamento pari a un mese e mezzo di retribuzione.
Riepilogando, i licenziamenti saranno catalogati in tre tipologie.
Licenziamento per motivi discriminatori: in qualsiasi tipo di azienda, sotto o sopra i 15 dipendenti, i licenziamenti determinati da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali o da questioni discriminatorie in genere, già oggi è considerato nullo. Con la conseguenza che, in ogni caso sarà disposto il reintegro del lavoratore sul posto di lavoro. Questa fattispecie non è stata modificata.
Licenziamento per motivi disciplinari: in questi casi, allo stato, alle imprese che occupano alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori si applica l’articolo 18, marginalmente modificato dalla legge 108/1990, che assicura la tutela della stabilità del posto di lavoro. Il giudice quando stabilisce che il licenziamento non è assistito da giusta causa o giustificato motivo, deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza la possibilità di un’alternativa di tipo risarcitorio ovvero senza alcuna possibilità di monetizzare la stabilità del rapporto. Non solo, oltre alla reintegra, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino all’effettiva reintegra, comunque non inferiore a 5 mensilità di retribuzione.
Con l’attuale disciplina, solo il lavoratore può “liberare” il datore di lavoro dall’obbligo di reintegra optando – in base alla legge 108/1990 – per un’indennità pari a 15 mensilità in sostituzione della stessa. La sentenza di reintegrazione comporta anche l’obbligo di pagare le contribuzioni previdenziali e assistenziali sulla retribuzione globale dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione. Se il lavoratore, invece, non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, o entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza non richiede il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra, il rapporto si intende risolto alla scadenza dei termini sopra indicati e i contributi sono dovuti fino a quella data.
Licenziamento per motivi economici: vale quanto detto per il licenziamento per motivi disciplinari. Le novità che qui verranno introdotte prevedono, differentemente da quanto allo stato, che il giudice – che in ogni caso e come oggi non potrà valutare le scelte economiche del datore di lavoro, ma esclusivamente verificarne l’oggettiva sussistenza – possa stabilire, in ipotesi di recesso illegittimo, un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità, escludendo la possibilità di reintegra del lavoratore.
Utile è notare come la riforma non modifica la disciplina in materia di licenziamenti cosiddetti “collettivi”, ovvero i casi in cui il recesso riguarda motivi economici e si riferisce, nell’arco di 120 giorni, ad almeno 5 lavoratori. Tali ipotesi restano regolate dalla legge 223/1991, che dalla riforma non viene toccata.
Tornando ai licenziamenti individuali, le novità introdotte dal governo Monti prevedono che, in caso di licenziamenti disciplinari, per il lavoratore che adisca giudice, il reintegro sia previsto solo se il motivo è inesistente perché il fatto non è stato commesso ovvero se il motivo non sia riconducibile al novero delle ipotesi punibili ai sensi dei contratti collettivi nazionali. In tutti gli altri casi di inesistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro, il giudice dispone un indennizzo da 15 a 27 mensilità e mai il reintegro. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero ha poi spiegato che ci saranno anche altre novità per “accorciare la durata del processo”, la cui attuale, eccessiva lunghezza viene considerata penalizzante dalle aziende.
Rispetto alla nuova flessibilità in uscita, Cisl e Uil avrebbero preferito che uscissero dal diritto al reintegro solo i licenziamenti per motivi economici, ma non quelli disciplinari. Naturalmente la Cgil non è mai stata favorevole alla riforma dell’articolo 18, ma solo a stabilire norme per accelerare i processi riguardanti i licenziamenti. Le modifiche all’attuale sistema di tutela reale proposte del Governo, non sembrano di per sé sole essere ancora sufficienti a favorire una maggiore flessibilità del mercato del lavoro italiano e probabilmente, in fase di applicazione concreta, l’ampia discrezionalità lasciata all’organo giudicante inciderà pesantemente sulle conseguenze effettive, lasciando le imprese in un’incertezza anche maggiore di quella attuale.
Nonostante ciò e nonostante la riforma proposta non sembri essere sovversiva dell’attuale sistema di garanzie, ancora una volta la “questione articolo 18” diventa baluardo di difesa da parte del sindacato conflittuale. Ciò ha ostacolato un’intesa di quadro che prevede misure sostanziali che vanno ben oltre la mera reintegra, peraltro di fatto scarsamente utilizzata dai lavoratori, che mirano a rendere il mercato del lavoro italiano più competitivo e in linea con gli ordinamenti europei a noi più vicini.
Si pensi alle nuove proposte sui contratti, al rafforzamento per esempio del contratto a tempo determinato e dell’apprendistato, al nuovo sistema di ammortizzatori sociali, alla cassa integrazione a all’Aspi (la nuova assicurazione sociale per l’impiego), al fondo solidarietà per lavoratori anziani: forse un’occasione mancata per ritrovare la possibile unità, anche sindacale, che nelle ultime settimane si era ventilata. Ma la riforma va avanti, sarà il Parlamento a decidere.