Le modifiche introdotte dal governo all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori continuano a far discutere, specialmente quelle riguardanti i licenziamenti economici. Andiamo per ordine: i licenziamenti discriminatori, quindi effettuati per ragioni di “discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”, sono da considerarsi nulli, come se non fossero mai avvenuti, quindi il lavoratore ha diritto al reintegro. Questo vale per tutte le aziende, sia sotto che sopra i quindici dipendenti che, nel caso in cui il giudice accerti la discriminazione, dovranno pagare anche retribuzioni e contributi per tutto il periodo tra il licenziamento e la sentenza. Il giudice dovrà anche decidere riguardo i licenziamenti disciplinari, che si riferiscono quindi a casi di assenteismo, inadempienze da parte del lavoratore o comportamenti scorretti. Il magistrato del lavoro, una volta accertata la ragione del dipendente, dovrà scegliere tra il reintegro e l’erogazione di un indennizzo, tra le 15 e le 27 mensilità. Arriviamo quindi alla questione più spinosa e controversa, quella riguardante i licenziamenti per motivi economici, che fanno riferimento “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
La riforma introdotta dal governo prevede, a differenza del passato, che in assenza del giustificato motivo oggettivo, il giudice potrà solamente decidere quante mensilità far pagare all’azienda come indennizzo. Il reintegro non è quindi più previsto, mentre prima del licenziamento si terrà una procedura di conciliazione tra lavoratore, assistito dal sindacato, e azienda: se le due parti trovano un accordo, il lavoratore potrà essere ricollocato, ma in caso contrario toccherà al giudice quantificare semplicemente l’indennizzo. L’intera vicenda risulta controversa perché le aziende, per poter licenziare più facilmente, potrebbero appellarsi alla motivazione economica che, se considerata non esistente dal giudice, è punibile solamente attraverso il versamento di un indennizzo, ma non con il reintegro del lavoratore. Per questo i sindacati hanno richiesto l’introduzione di una norma che possa prevedere, nei casi in cui il motivo economico non sia riscontrato, l’annullamento del licenziamento. IlSussidiario.net ha chiesto quindi un commento a Giorgio Santini, Segretario generale aggiunto della Cisl: «La riforma proposta cerca di portare maggiore razionalità in questo sistema, ed è la strada che anche noi, come sindacato, abbiamo scelto per evitare che l’articolo 18 venisse cancellato completamente. Per salvare il senso storico della norma, cioè quello di contrastare discriminazioni e abusi, abbiamo proposto nel corso del dibattito una sorta di “gerarchia” di sanzioni per i licenziamenti illegittimi.
Quando questi sono discriminatori, risultano sempre nulli e danno sempre diritto al reintegro; quando invece sono disciplinari, danno diritto al reintegro, nella maggioranza dei casi, in cui il lavoratore viene accusato di un fatto che poi risulta non aver commesso. Oppure nei casi in cui viene licenziato per motivi che contrattualmente sono punibili con altre diverse sanzioni. Per quanto riguarda i motivi economici, la nuova legge dirà che prima di arrivare in giudizio, dovrà essere attuata anche per i licenziamenti individuali una procedura preventiva di conciliazione tra le parti. Il lavoratore non può quindi essere licenziato se prima l’azienda non notifica all’Ufficio del lavoro i motivi del licenziamento. Entro sette giorni si fa poi un confronto, in cui o si trova un accordo, oppure il lavoratore può ricorrere in sede giudiziaria. A quel punto il giudice valuterà i motivi economici: se questi effettivamente esistono, verrà data ragione all’azienda, con il conseguente licenziamento del lavoratore; se i motivi economici non sono invece sufficienti, l’azienda dovrà dare al lavoratore un forte indennizzo, fino a 27 mensilità».
Giorgio Santini arriva poi al cuore della questione, la parte più controversa: «C’è un punto in particolare che è stato sollevato e su cui siamo assolutamente d’accordo, che cercheremo con tutte le forze di far introdurre nella legge. Crediamo infatti che non si possa sfruttare il canale dei motivi economici come pretesto per licenziare liberamente, quindi la legge dovrà prevedere che, anche nei casi di motivi economici, il giudice possa decidere per il reintegro se accerterà che il motivo non è in realtà economico ma discriminatorio o disciplinare. Se questa legge verrà presentata nei modi che ho appena descritto, per quanto ci riguarda si tratta di una norma che mantiene inalterata sia la tutela garantita dall’articolo 18 che la deterrenza nei confronti di chi vuol licenziare più facilmente».
(Claudio Perlini)