Si complica il cammino della riforma del lavoro. Ieri era prevista la stesura di un testo definitivo, ma si è poi deciso di attendere il vaglio del Consiglio dei ministri convocato per oggi. Anche perché col passare delle ore sembra allargarsi il fronte di chi si oppone alle misure studiate dal Governo, in particolare per quel che riguarda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo resta comunque quello di arrivare a una soluzione prima della partenza di Mario Monti per l’Estremo Oriente. Un viaggio nel quale conta di presentare le “novità” ai suoi ospiti: uno degli obiettivi di questa riforma, nelle intenzioni del Premier, è infatti rendere più attrattivo il nostro Paese per gli investimenti esteri.



Su questo campo arriva però una “bocciatura” da parte di due stranieri che osservano da vicino le vicende italiane. Si tratta di James Bone e Christopher Emsden, corrispondenti dall’Italia rispettivamente per il The Times e il The Wall Street Journal. «Molte imprese straniere – spiega Bone a ilsussidiario.net – hanno paura dell’attuale sistema italiano. Per esempio, il fatto di non poter licenziare senza giusta causa è un concetto abbastanza strano per il resto del mondo. Evidentemente si deve fare molto di più, perché in questo momento è certamente molto difficile avvicinare investimenti stranieri verso l’Italia». Sulla stessa linea anche Emsden, secondo cui «questa riforma da sola non basta. Può certamente aiutare, ma ad allontanare gli investitori restano pressione fiscale, burocrazia, durata dei processi, logistica e trasporti. Inoltre, è palese che per i prossimi anni l’Italia avrà una domanda interna fiacca, anche per via dell’austerità. Nella “classifica” dei mercati appetibili è quindi molto meno interessante di altri paesi come Cina, Turchia, Russia, Serbia e Romania». Se poi qualcuno pensa che i dissensi sulla riforma del lavoro possano aver avuto un effetto sullo spread tra Btp e Bund, che ieri è tornato sopra i 310 punti base, il giudizio di Emsden è netto, ma chiarificatore: «Non credo che ci sia stato questo impatto. Il mercato ha altre cose più importanti cui pensare».



Certo è che l’Italia ha bisogno di importanti cambiamenti, come spiega Bone: «Negli anni Ottanta, l’Inghilterra ha visto le grandi riforme di Margaret Thatcher, certamente molto controverse, ma capaci di modernizzare l’economia di un Paese. L’Italia, come la Grecia e i Paesi del sud Europa, deve fare lo stesso, cioè modernizzare la propria economia, altrimenti niente potrà andare nel verso giusto». Anche se, avverte Emsden, «più delle le regole, conta creare delle opportunità perché ci sia più lavoro. Del resto, anche negli Usa ci sono Stati in cui è previsto il diritto al reintegro come nel caso dell’articolo 18: non c’è un mercato “selvaggio” come spesso viene dipinto all’estero. Il nostro punto di forza, anche se sta risentendo della crisi, è sempre stata la cultura della mobilità accompagnata dalle tante opportunità che si cercano per creare nuove mansioni. Questo rende più facile ritrovare un lavoro quando lo si perde. Perciò da noi la protezione del posto di lavoro non è così importante».



Ma più che ispirarsi a un modello straniero, l’Italia dovrebbe cercare di superare un’anomalia peculiare del suo: quella per cui, spiega l’inglese, «i lavoratori più anziani mantengono un posto fisso, mentre per i giovani sembra impossibile trovare un’occupazione. In questo senso mi ha colpito un episodio: due camerieri che lavoravano nel bar dove sono solito andare sono stati licenziati perché, dopo essersi visti rinnovare il contratto a tempo determinato, gli è stato poi comunicato che non sarebbe accaduto ancora, perché questo avrebbe implicato l’assegnazione di un posto fisso e tutto ciò che ne consegue. Quindi adesso altri due ragazzi sono attualmente disoccupati, e devo ammettere che questo è davvero assurdo». Una situazione che, secondo l’americano, è stata determinata dal fatto che «la flessibilità è stata usata per cercare abbassare il costo del lavoro. Ma questo legittimo traguardo dovrebbe essere raggiunto senza “guastare” la flessibilità. Questa deve rimanere in quelle situazioni in cui occorre un contratto non vincolante, come quando si avvia un progetto imprenditoriale dall’esito incerto». E il fatto che le forme contrattuali flessibili verranno a costare di più, avverte Bone, «probabilmente porterà le imprese italiane ad assumere di meno, perché spesso hanno l’abitudine a inserire i giovani nel mercato in modo “precario”».

Qualunque possa essere l’esito di questo progetto di riforma, non si potrà non tener conto del parere dei sindacati, i quali, continua il giornalista del Times «giustamente proteggono i loro membri, ma dovrebbero forse impegnarsi per aiutare non chi è già protetto e ha un lavoro, ma i giovani, che pur sforzandosi restano disoccupati e con una prospettiva che va ogni giorno assottigliandosi». L’intervento sull’articolo 18 è quindi sensato, secondo il corrispondente del Wsj: «Credo che nel 1970 fosse stato concepito come una norma contro i licenziamenti discriminatori, ma poi si è trasformato in una “pietra tombale” per tutti i rapporti di lavoro». In questo senso, dice Bone, «la nuova disciplina sui licenziamenti economici, con la previsione di un indennizzo, permette alle imprese di potersi organizzare meglio. Naturalmente ci vuole un sistema più robusto di ammortizzatori sociali rispetto a quello attuale». E a tal proposito, conclude Emsden, «mi sembra che la creazione dell’Aspi estenda tutele e ammortizzatori sociali in maniera “universale”».

 

(Lorenzo Torrisi e Claudio Perlini)