Com’era prevedibile, la materia più controversa della riforma del mercato del lavoro sulla quale si è innestato gran parte del dibattito è rappresentata dall’articolo 18. L’innovazione relativa è stata operata al ribasso, sia dal punto di vista di chi ne voleva l’abolizione che da quello di chi ne pretendeva l’inviolabilità. In particolare, sono in molti a pensare che un compromesso soddisfacente consisterebbe nell’introdurre anche per i licenziamenti economici la facoltà, da parte del giudice, di decidere se reintegrare o meno il lavoratore licenziato (la riforma prevede nei casi di illegittimità del procedimento un semplice indennizzo); altresì, è grande lo scontento per la decisione di tenere il settore del pubblico impiego fuori dalle nuove regole. «Si tratta di una riforma a metà. Meglio, a due terzi. Lasciare isolato dalla riforma del mercato del lavoro il settore pubblico equivale a lasciare fuori, infatti, circa un terzo dei lavoratori italiani», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Mario Mezzanzanica, docente di Sistemi informativi presso l’Università Bicocca di Milano. «Con la decisione assunta dal governo – continua – si è rimandato un intervento serio, creando due classi di lavoratori». Oltretutto, secondo Mezzanzanica, il comparto pubblico è l’unico dove, paradossalmente, si possa effettivamente parlare di precarizzazione. «Non essendo prevista in esso, infatti, la “dismissione” delle persone, si procede con le piante organiche e da anni non si procede con le assunzioni. Si va avanti con contratti temporanei alla scadenza dei quali occorre accedere a nuovi bandi». Si tratta del comparto, quindi, dove la stabilizzazione professionale è meno probabile che altrove.



«Al contrario, un giovane che lavora nel privato entra con contratti temporanei, ma nel tempo si stabilizza. E, magari, cambia lavoro anche una volta che si è stabilizzato. Nel pubblico, invece, rischia di rimanerci a vita con la chimera dell’assunzione a tempo indeterminato». Ovviamente, istituzioni ed enti pubblici non possono essere trattati alla stessa maniera delle imprese private. «Non si può applicare loro un principio economico in termini di utili, investimenti o opportunità del mercato. Tuttavia, si può ragionare in termini di servizi. La loro qualità, infatti, corrisponde al parametro di valutazione di un servizio pubblico. Essa deve poter continuare a evolversi e gli assetti organizzativi devono modificarsi in funzione di tale evoluzione». Mezzanzanica è decisamente scettico anche relativamente all’ipotesi di estendere ai licenziamenti per motivi economici la facoltà del reintegro. «Se il fenomeno oggi non ha dimensioni rilevanti potrebbe assumerle in futuro. Se un posto di lavoro dovesse essere sottoposto alla giustizia ordinaria, infatti, si rischierebbe un prolungamento inaccettabile dei tempi». 



Anche sotto questo profilo, la riforma si presenta monca. «Il problema è che non è stato esplicitata con chiarezza la possibilità di demandare la contrattazione a livello locale. Il che consentirebbe di raggiungere soluzioni ottimali e maggiormente rispondenti alle esigenze dell’azienda e dei lavoratori». Il rischio, invece, è che «si deleghi allo Stato la possibilità di stabilire se uno abbia o meno diritto a un determinato lavoro».

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