La polemica infuria e assume nuove pieghe. Al centro del dibattito sull’articolo 18, attualmente, c’è il pubblico impiego. La nuova disciplina sui licenziamenti contenuta nella riforma del mercato del lavoro non si applica, infatti, agli statali. Secondo Pietro Antonio Varesi, Professore ordinario di Diritto del lavoro, interpellato da ilSussidiario.net, «la questione è di per sé fuorviante; serve a sviare l’attenzione dagli enormi problemi che la riforma sortirà nel privato». In ogni caso: a chi vorrebbe che anche gli statali possano essere licenziati per motivi economici, con la garanzia del solo indennizzo in caso di illegittimità del provvedimento, ha risposto il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi. Spiegando perché è giusta una regolamentazione diversa dal settore privato. Ebbene: si accede al comparto pubblico – ha spiegato il ministro – attraverso concorsi, per tutelare «il cittadino che nel momento in cui si rivolge all’amministrazione deve avere la presunzione» dell’imparzialità del funzionario. Non c’è un imprenditore che si sceglie il dipendente. Non si può parlare, poi, di rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro (il venir meno di tale rapporto, nel privato può dar adito a licenziamento): tra un funzionario dell’Asl e, ad esempio, il presidente della Regione non deve esserci “fiducia”, ma, casomai, leale collaborazione. Inoltre, il dipendente pubblico è sottoposto, in certi casi, a norme ben più severe di quello privato. Basti pensare ai trasferimenti per incompatibilità ambientale. La mobilità, infine, è la modalità per dirimere situazioni di soprannumero. Il dipendente può essere, infatti, trasferito presso un’altra amministrazione, ottenendo per due anni una retribuzione pari al’80% del suo ultimo stipendio.



Tutte ragioni con le quali Varesi si dice d’accordo. «Il settore pubblico – chiarisce – ha sempre avuto una sua regolamentazione specifica. Certo, ci sono state alcune contaminazioni tra la disciplina privata e quella pubblica, quali l’estensione delle norme sui licenziamenti discriminatori al pubblico; ma i due settori restano ancora profondamente diversi». Detto questo, ecco cosa cela il dibattito:  «Era parso, per mesi, che tutti fossero d’accordo nell’introdurre il modello tedesco (che prevede, in caso di licenziamento economico, l’attribuzione al giudice della facoltà di scegliere se imporre il reintegro o un indennizzo, ndr). Infine, non se n’è fatto nulla. Ovvero: i licenziamenti economici illegittimi saranno risarciti solamente con un indennizzo». La normativa così impostata, secondo il professore, vanifica le tutele riconosciute nei licenziamenti discriminatori e in quelli disciplinari illegittimi. «È la scappatoia attraverso la quale rendere qualunque licenziamento illegittimo efficace. Sarà sufficiente, infatti, definirlo economico per evitare di dover reintegrare il lavoratore». 



Non che il pubblico impiego sia esente da criticità da dirimere. Sono due, in particolare: «Occorre adeguare il numero dei dipendenti alle esigenze della pubblica amministrazione. Si fa fronte a tale problema, attualmente, con lo strumento della mobilità. Altra questione, è quella del licenziamento per motivi disciplinari, laddove, ad esempio, il dipendente non si presenta a lavoro. In entrambi i casi, è possibile semplificare le procedure, a oggi estremamente complicate». Ma l’articolo 18 è materia che non ha nulla a che fare con questi problemi: «Non si può pensare che sia sufficiente una norma per superare decenni di barriere».  



 

(Paolo Nessi