Tanto per alimentare un po’ di confusione, salta fuori un’altra grana sulla riforma del mercato del lavoro. Filomena Trizio di Nidil-Cgil (il ramo sindacale della Cgil dei cosiddetti lavoratori atipici), sostiene che l’aumento delle aliquote contributive per i collaboratori, che passeranno dal 27,72% attuale al 33% nel 2018, si scaricherà sui lavoratori, perché le aziende, in assenza di un compenso minimo, cercheranno di lasciarlo inalterato facendo pagare tutto l’aumento al lavoratore. La Trizio aggiunge: “Per evitare che con l’aumento dell’aliquota ci rimettano i lavoratori come già accaduto in passato con gli altri aumenti dei contributi, sarebbe necessario agganciare i compensi minimi dei collaboratori ai minimi salariali contrattuali per pari professionalità”. Ivan Guizzardi, Segretario generale della Felsa, Federazione lavoratori somministrati autonomi atipici, della Cisl, dice che questa è un’interpretazione fatta dalla Cgil, che va bene per la Cgil.



In che senso è un’interpretazione della Cgil?

Al momento, nei cosiddetti contratti a progetto, tanto per intenderci, i due terzi dei contributi sono a carico dell’azienda e un terzo è a carico del lavoratore. La Cgil sostiene che se non viene aumentato il compenso di base, alla fine, l’aumento delle aliquote ricade sul lavoratore. Ma forse non si sono resi conto che questo può valere per qualsiasi contratto, non solo per quelli di collaborazione.



Al tavolo della trattativa, o del confronto con il governo,  voi avete difeso tutti questi contratti. Ma probabilmente questa volontà non c’era da parte della Cgil e forse neppure da parte del Governo. Si può aggiungere che questa volontà non c’era soprattutto da parte del ministro del Welfare, Elsa Fornero?

Diciamo pure che verso queste forme contrattuali non c’è mai stata simpatia, se vogliamo usare un eufemismo, da parte della Cgil. Ma non c’è stata neppure da parte del governo e del ministro del Welfare, Elsa Fornero. Sembravano tutti d’accordo a seguire la linea indicata dallo schema di Ichino e di Boeri, quello del contratto unico. Anzi, nella prima indicazione del governo, quella che non era ancora in bozza, si suggeriva una trattativa dove si prevedeva un contratto unico e un assegno per i giovani senza lavoro. Di fatto, si prevedeva l’eliminazione di queste forme contrattuali.



Poi questo schema è però cambiato.

Certamente alla fine questo schema è cambiato. Ma è cambiato per l’azione che abbiamo condotto sia noi della Cisl che i sindacalisti della Uil.

La sensazione però è che, con queste interpretazioni, vogliano ancora ridiscutere la questione, magari attraverso una serie di interventi o di pressioni in Parlamento.

Non credo che riusciranno a cancellare queste forme contrattuali. Il problema vero e reale di questi contratti è che siano visti nel loro insieme tre elementi. Ci vuole in primo luogo un innalzamento del contributo previdenziale. E questo va a carico dell’azienda. Bisogna in secondo luogo controllare che non ci siano delle distorsioni, come è avvenuto con il ricorso alle  partite Iva. In terzo luogo occorre favorire l’apprendistato. Per comprendere la filosofia di queste forme contrattuali è necessario guardare tutti questi tre elementi insieme.

Resta comunque una forma di resistenza di fondo.

Questo è in atto fin dal 2001. Non c’è affatto da stupirsi.