L’Ocse ha promosso la riforma del lavoro varata dal governo italiano. Secondo Angel Gurria, Segretario generale dell’organizzazione internazionale, questo intervento dovrebbe consentire al nostro Paese “di accelerare la creazione di posti di lavoro, far scendere la disoccupazione e rafforzare la crescita di lungo periodo”. Non la pensa così però chi i frutti di questa riforma dovrebbe coglierli, ovvero un imprenditore. Come Emilio Colombo, che ha una microimpresa a Cantù, nel cuore della Brianza, che progetta e sviluppa sistemi di automazione per conto di costruttori di macchine e aziende di produzione, e che ora non sa come poter assumere i giovani di cui avrebbe bisogno. Il suo giudizio è netto: «Non penso proprio che ci saranno nuove assunzioni, almeno per noi piccoli».

«Già faccio a fatica – ci racconta – a trovare ragazzi che vogliano fare questo lavoro. Mi è già capitato infatti di avere persone assunte a tempo indeterminato che poi hanno deciso di andarsene per svolgere un’altra attività. Ora con queste nuove regole le nuove assunzioni mi verranno a costare fino al 30% in più». Dunque i decantati effetti dell’articolo 18 nel creare nuove opportunità non sembrano esserci. «Penso – è la riflessione di Colombo – che alla grande maggioranza delle imprese italiane non importi nulla delle nuove norme sull’articolo 18, dato che hanno meno di 15 dipendenti». Il vero problema è che è stato di fatto “cancellata” la flessibilità, grazie all’aumento degli oneri per determinate forme contrattuali.

Colombo è molto pragmatico nello spiegarci gli effetti della riforma. «I giovani neolaureati arrivano nel nostro settore che non sono ancora formati, a differenza di quanto avviene (come ho potuto constatare direttamente) con i coetanei tedeschi. Per me è quindi importante avere un contratto flessibile, in modo che io possa valutare se la persona svolge bene la sua mansione e che per lei ci sia l’occasione di capire se il lavoro le piace realmente. Se volessi mantenere la flessibilità, con queste nuove norme dovrei spendere il 30% in più. Se dovessi usare un contratto a tempo determinato l’aumento sarebbe inferiore. Ma per la mia attività la flessibilità è fondamentale». Il perché è presto detto: «Per chi lavora per commessa, a progetto, la flessibilità è vitale. Mi occorre come formula di inserimento, perché io poi sono anche pronto ad assumere a tempo indeterminato. Anzi, per me è meglio, perché nella mia attività creare gruppo è utilissimo».

Eppure a rispondere a questo bisogno di “inserimento” dovrebbe essere il contratto di apprendistato. «Per me – spiega Colombo – è però inutilizzabile. È vero che potrei prendere giovani laureati fino a 29 anni, ma poi non potrei mandarli in trasferta se non affiancati, dovrebbero seguire dei corsi di formazione e quindi non li avrei a disposizione tutti i giorni. L’apprendistato va bene per strutture più grandi, ma chi è più piccolo come fa?».

A parità di flessibilità, e a parità di stipendio per il lavoratore, la riforma comporta quindi costi che per alcuni, come Colombo, possono diventare insostenibili: «Cosa c’è di peggio che aumentare i costi a un’azienda in un momento come questo in cui i prezzi scendono? Le aziende stanno in piedi se incassano più di quanto spendono. Se i costi salgono e i prezzi scendono come si fa a sopravvivere? Questa riforma ha abbassato per alcuni i costi in uscita sul mercato del lavoro, ma bisogna tenere bassi anche quelli in entrata. Abbiamo un costo del lavoro già alto: bisogna abbassarlo, non alzarlo».

La conclusione di Colombo è amara: «L’impressione è che si voglia distruggere i piccoli. Questo aumento dei costi è un fattore che accompagnato alla crisi farà “selezione” tra le imprese, ed è chiaro che quelle più piccole faranno più fatica a sopravvivere». L’alternativa per poter andare avanti, nel caso, non è poi così lontana. «Conosco casi di aziende – conclude Colombo – che hanno già traslocato in Svizzera. Non vorrei che lo Stato spingesse altre a fare altrettanto».

 

(Lorenzo Torrisi)