Nel disegno di legge sulla riforma del lavoro approvato lo scorso 23 marzo dal Consiglio dei ministri è esplicito l’obiettivo di favorire una più equa distribuzione delle tutele dell’impiego, contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni, limitandone l’uso improprio e distorsivo – e quindi la precarietà che ne deriva – riconducendo questi ultimi all’uso proprio e previsto dal legislatore. La riforma si propone inoltre di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi.
Entrando nel merito, si è alzato il solito polverone sui licenziamenti e sull’articolo 18, ma molte più criticità per il mercato del lavoro e per l’occupazione potrebbero manifestarsi da questo giro di vite sui rapporti di lavoro flessibili; giro di vite che solo parzialmente si riferisce alla regolamentazione effettiva dei rapporti atipici, esplicando al contrario effetti sostanziali con riferimento al regime contributivo che aumenterà considerevolmente il costo del lavoro per le imprese che utilizzano e utilizzeranno tali tipologie contrattuali.
Si pensi per esempio alle modifiche che si prospettano con riferimento al contratto di lavoro a termine, nell’ambito del quale desta qualche perplessità il fatto che un rapporto di lavoro subordinato, soggetto alla disciplina applicata ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e per il quale si vede applicabile il medesimo contratto collettivo nazionale di lavoro, debba essere soggetto a un incremento contributivo senza che ne derivi alcuna controprestazione migliorativa per gli interessati.
Tale previsione sembra operare esclusivamente quale deterrente alla stipula di tali contratti di lavoro e, seppur situata all’interno di un piano più esteso che vede per esempio la possibilità per il datore di lavoro di attivare il primo rapporto a termine senza necessità di causale, sembra orientata a gravare le imprese di costi aggiuntivi nella gestione organizzativa flessibile che i mercati ci impongono. Ciò senza contare che, anche in riferimento alla disciplina regolatoria del rapporto, non poche criticità presenterà, dal punto di vista sostanziale, la computazione nel periodo massimo di durata del rapporto a termine (36 mesi) degli eventuali rapporti di lavoro in somministrazione che il lavoratore abbia già intrattenuto con l’impresa.
Altrettanto possiamo dire dell’incremento contributivo a carico dei co.co.pro., che vedranno da qui al 2018 aumentare di 6 punti percentuali il loro prelievo previdenziale, senza ricevere in cambio alcun beneficio sul piano della prestazione. Anche in questo caso per tale tipologia contrattuale sono in arrivo presunzioni onerose per il datore di lavoro che si vedrà considerati quali rapporti subordinati collaborazioni per attività analoghe a quelle svolte dai dipendenti, senza che sia considerata l’eventuale (ed evidentemente essenziale!) modalità di svolgimento del rapporto, prescindendo dal principio, storicamente enunciato dalla giurisprudenza, secondo il quale qualsiasi attività lavorativa può essere svolta in forma autonoma o subordinata. Ciò che le imprese temono sono i maggiori costi, anche in termini di contenzioso, che possono gravare sulle stesse ingessando ulteriormente un mercato già bloccato.
Curiosa ci sembra anche l’idea che un lavoratore con partita Iva che riceva il suo reddito in misura superiore al 75% da un committente, pur avendo altre committenze, e lavorando per questo per un periodo superiore a 6 mesi, si trovi soggetto a una presunzione (seppur relativa) di coordinamento e continuità del rapporto, con la conseguenza diretta, ammessa dallo stesso Governo, del (quasi automatico) riconoscimento di subordinazione. Anche le altre tipologie flessibili quali il contratto di lavoro a tempo parziale e il lavoro intermittente, pur se non modificate sostanzialmente, vedranno modificati gli oneri comunicazionali che il datore di lavoro dovrà porre in essere in caso di utilizzo di clausole flessibili o elastiche, ovvero in caso di chiamata. Tali previsioni, a una prima lettura, sembrano essere positive e, senza appesantire il costo del lavoro o gli eccessivi oneri amministrativi, potranno incentivare l’uso lecito dei due contratti.
Utile, sebbene non rivoluzionaria, l’idea di investire, a favore dell’occupazione giovanile, sul contratto di apprendistato, che viene riproposto come il canale privilegiato di accesso al mondo del lavoro. Il disegno di legge proposto dal Governo cerca di incentivare le stabilizzazioni contrattuali degli apprendisti, recependo l’orientamento già diffuso in contrattazione collettiva, prevedendo la necessità, prima di procedere a nuove assunzioni in apprendistato, di aver stabilizzato almeno il 50% degli apprendisti assunti nell’ultimo triennio, con l’esclusione dei rapporti cessati durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa.
È inoltre previsto l’innalzamento del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati presenti in azienda, dall’attuale 1/1 a 3/2. Sarà reintrodotta una durata minima del periodo di apprendistato pari a sei mesi, ferma restando la possibilità di durate inferiori per attività stagionali. Fino a quando non sarà operativo il libretto formativo, disciplinato nella legge “Biagi” (dlgs 276/03, art. 2 lettera “i”) e da allora sostanzialmente rimasto lettera morta, la registrazione della formazione è sostituita da apposita dichiarazione del datore di lavoro.
Anche in tal senso, tuttavia, a poco serviranno le previsioni teoriche se non si incoraggerà il mutamento culturale del mercato nei confronti di tale tipologia, da sempre virtuosa sulla carta, ma troppo spesso impropriamente utilizzata.