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La riforma del lavoro presentata dal Governo è il risultato di una trattativa che sarà oggetto di un’ulteriore discussione parlamentare. Normale dialettica democratica, certamente, tuttavia il timore è che il passaggio all’Aula possa depotenziare ulteriormente l’indirizzo iniziale della riforma, riducendola alla mediazione di una mediazione con tempi di approvazione e entrata in vigore incerti.
Tutto questo discutere e ridiscutere insinua numerosi dubbi sulla possibilità che si giunga a un esito efficace. La posta in palio è enorme: le aspettative generate nel nostro Paese e nella comunità internazionale circa la capacità della riforma di far fronte alle reali esigenze del Paese rischierebbero di sortire effetti devastanti qualora non si giungesse a nulla di davvero decisivo, vale a dire a un risultato in grado di rilanciare autenticamente lo sviluppo della nostra economia.
Il tema più critico rimane quello della flessibilità in uscita, su cui la riforma vorrebbe introdurre per la prima volta una valutazione del “severance cost” – il costo di separazione tra azienda e dipendente per motivi economico organizzativi – definendo per legge un “range” economico del costo del licenziamento, escludendo la possibilità di reintegro. Si tratterebbe di una novità straordinaria, capace di rimuovere definitivamente la condizione di inamovibilità del lavoratore e di scardinare il concetto di “job property” – secondo cui il dipendente è considerato “proprietario” del posto di lavoro – responsabilizzando in tal modo l’impresa nella gestione del proprio collaboratore e della propria organizzazione. Se questo punto cardine della riforma venisse vanificato, l’intera efficacia della stessa ne verrebbe inficiata: meglio allora annullare tutto e ricominciare da capo!
Un punto critico che andrebbe invece modificato è costituito dall’entità e dalla forma del “severance cost”. La misura dell’entità va resa certa e predeterminata nell’ammontare in ragione dell’anzianità di servizio e affiancata da azioni di politica attiva rese obbligatorie per legge e in grado di supportare efficacemente il lavoratore al reinserimento professionale. Proprio le politiche attive continuano a essere le grandi assenti di questa riforma. L’introduzione di forme di ammortizzatori sociali passivi di carattere universale implica a maggior ragione la necessità che in caso di licenziamenti sia le imprese che la pubblica amministrazione destinino parte delle risorse a facilitare il reimpiego più rapido possibile. Ciò oltre a favorire il lavoratore disoccupato contribuirebbe a contenere la spesa improduttiva degli ammortizzatori sociali.
Da questo punto di vista sarebbe assolutamente auspicabile che almeno all’interno della preventiva procedura di conciliazione prevista dal disegno di legge fosse contemplato l’obbligo da parte dell’impresa di supportare il lavoratore licenziato offrendogli un voucher di servizi volti alla sua ricollocazione. E’ inoltre grave la mancanza di qualsiasi riferimento al principio di condizionalità del sostegno al reddito del disoccupato che protrae l’erroneo indirizzo alla deresponsabilizzazione.
Per ciò che concerne la flessibilità delle forme di lavoro, la riforma compie un pezzo di strada nella giusta direzione, ma si ferma a metà del guado. Da un lato infatti si definiscono regole più strette per l’applicabilità di alcuni contratti senza però – giustamente – eliminarli ma puntando piuttosto a sferrare un duro colpo agli abusi nell’utilizzo di cocopro, associazioni in partecipazione, tirocini, partite Iva, ecc. Allo stesso tempo si restringe adeguatamente anche il campo di utilizzo del lavoro a termine direttamente stipulato tra azienda e lavoratore, introducendo l’1,4% di extra costo e limitando la possibilità temporale di reiterazione dell’utilizzo di questi contratti.
Per converso, eliminando la causale almeno dal primo contratto si liberalizza lo strumento riducendone il rischio di contenzioso. La medesima logica di introduzione della a-causalità, se possibile ancor più estesa, andrebbe però applicata alla somministrazione, per ora preservata dalle mire restrittive del disegno di legge e che invece richiederebbe la definizione di provvedimenti ad hoc. L’a-causalità dei contratti di somministrazione, l’incentivazione della stabilizzazione dei dipendenti delle Agenzie e la difesa del virtuoso sistema di politiche attive delle Apl, gestito dalla bilateralità, sono alcuni tra i punti cardine che la riforma per ora tralascia e che possono rafforzare lo sviluppo di una buona flessibilità a costo zero per il Paese. Senza questa importante integrazione la riforma rischia di irrigidire indiscriminatamente il sistema.
Si tratta, globalmente, di un approccio al mercato del lavoro molto pericoloso perché un sistema sano ha bisogno di sicurezza, ma anche di flessibilità. Per garantire la sicurezza dei lavoratori è auspicabile che si giunga ad una puntuale selettività tra forme buone e cattive di flessibilità: un sistema che colpisce indiscriminatamente tutte le forme di flessibilità rischia di porre il nostro Paese al di fuori della competizione globale e, conseguentemente, inibisce un’efficace crescita per ciascuno di noi.
A Parlamento e Governo spetta ora un compito davvero difficile: “tenere duro” sui punti cardine della riforma e dimostrare sufficiente flessibilità per apportare quelle correzioni necessarie a rendere questo provvedimento davvero coerente ed efficace. Siamo di fronte a una situazione che può trasformarsi in una svolta epocale per il nostro Paese, come nell’ennesima speranza vanificata.