«Il modello tedesco prevede innanzitutto un filtro sindacale, una procedura di conciliazione prima ancora di presentarsi davanti al giudice. Bisogna quindi fare molta attenzione quando si dice che potrà essere adottato il modello tedesco in Italia, perché allora è necessario creare anche le stesse condizioni che ci sono in Germania, dove i lavoratori partecipano ai consigli di amministrazione delle aziende e dove è prevista la presenza dei cosiddetti “work council”, i consigli di fabbrica, eletti dagli stessi lavoratori». Il professor Maurizio del Conte, docente di Diritto del lavoro presso la Bocconi di Milano, ci parla del cosiddetto modello tedesco e delle ipotesi che da un paio di giorni gli esperti del ministero di Giustizia stanno vagliando insieme a quelli del Lavoro. Una prima idea sarebbe quella di potenziare la figura del giudice, che potrebbe stabilire, in caso di licenziamento per motivi economici, se esso nasconde in realtà motivi discriminatori. La riforma proposta dal governo, invece, prevede che sia lo stesso lavoratore a dover dimostrare la discriminazione, e non il giudice. In Germania, infine, davanti al giudice ci si va automaticamente, in tutti i casi di licenziamento individuale, ma applicare una norma del genere al sistema italiano non è semplice come può sembrare: «Quello tedesco – ci spiega il professor Del Conte – è un sistema molto complesso, in cui il licenziamento viene usato solo come estrema ratio, quindi in questi casi il giudice attua una vera conciliazione e propone di fatto la sua soluzione. Pur essendo complicato, è un sistema che in Germania funziona molto bene proprio perché esistono determinate condizioni».



Ecco quindi che un modello del genere, applicato in Italia, sarebbe un confuso minestrone: «Quello che temo di questa soluzione in salsa tedesca, ma comunque all’italiana, è una semplificazione del processo, e quindi che si vada a scaricare tutto sul giudice. Non credo che il ministero stia davvero pensando di far passare preventivamente dal giudice ogni licenziamento, perché se così fosse il nostro sistema giudiziale andrebbe al collasso. Immagino e auspico che si stia invece pensando a una fase preventiva di conciliazione in sede sindacale, dove si può davvero fare una verifica della discriminatorietà o meno. Questo credo potrebbe essere un buon sistema, perché è impensabile che ogni licenziamento vada davanti al giudice».



Inoltre, come ci spiega anche Del Conte, «il governo ha adottato questa strategia: aumentare il costo del lavoro a termine per ridurre la precarietà e per regolare la reiterazione dei contratti. E’ chiaro quindi che se si fa costare di più il lavoro a termine, abbiamo un disincentivo all’utilizzo di questo tipo di contratti, però c’è subito un primo problema: in realtà il lavoro a termine è una flessibilità che gli stessi sindacati considerano di per sé “buona”, perché si tratta di un lavoro che paga gli stessi contributi dell’indeterminato e che offre, almeno per il periodo pattuito, una assoluta stabilità. L’unico vero problema del lavoro a termine riguarda per l’appunto l’abuso in ragione di illegittime e croniche reiterazioni. Anche i sindacati si sono resi conto che, se si aggravano le imprese con ulteriori contributi sulla flessibilità di per sé “buona”, si rischia poi di scivolare verso altre forme realmente abusive di lavoro. Sembra quindi che in qualche modo si voglia ammorbidire questi costi, anche se non è chiaro con quale contropartita».



Ci sono poi altre due ipotesi: quella di rendere strutturale l’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego, anche per i co.co.pro., a cui oggi è invece riservata una tantum, e tassare maggiormente le forme di occupazione precaria, imponendo alle aziende che le utilizzano un’aliquota dell’1,4% sulla retribuzione. Il professor Del Conte spiega che «sono certamente argomenti che vanno affrontati, ma è chiaro che sia l’Aspi che l’aliquota dell’1,4% rappresentano ulteriori spese per l’azienda. Quindi, non essendoci un minimo salariale per i lavori autonomi, per i datori di lavoro è facilissimo recuperare questi costi, facendo semplicemente uno sconto sugli stessi salari dei lavoratori. Il rischio, che è quasi una concreta probabilità, è che a conti fatti questo ammortizzatore se lo paghino gli stessi lavoratori. In più a pagarlo sarebbero quelli che hanno meno tutele di tutti sotto il profilo della stabilità del rapporto di lavoro».

 

(Claudio Perlini)