Recentemente sono stati presentati i risultati italiani della quarta indagine sui valori degli europei (European Values Stydy – 2009) che ha coinvolto contemporaneamente i 47 paesi rappresentati nel Consiglio europeo. La ricerca è pubblicata nel volume “Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova”, curato da Giancarlo Rovati ed edito da Vita e Pensiero. Nell’indagine si parla anche di lavoro, un tema molto dibattuto in questi giorni nel nostro Paese. Abbiamo quindi chiesto al curatore di aiutarci a capire quali sono i dati più significativi che emergono.
Professor Rovati, che quadro generale emerge sulla percezione che gli italiani hanno del lavoro?
L’indagine si è svolta in Italia alla fine del 2009, quando gli effetti della crisi finanziaria ed economica scoppiata nell’autunno del 2008 erano già evidenti; le risposte degli intervistati (1519 persone in età di voto, rappresentative su scala nazionale) riflettono dunque le incertezze e le preoccupazioni sul futuro del lavoro che nel frattempo si sono aggravate. La crisi che stiamo vivendo alimenta le paure, ma spinge anche a riscoprire le risorse su cui possiamo far leva per affrontare i cambiamenti che ci sono richiesti e di queste risorse fanno parte anche i nostri orientamenti di valore. In questa duplice chiave va letta la grande importanza attribuita al lavoro dal 63% degli italiani, subito dopo la famiglia e prima degli amici, del tempo libero, della religione e della politica. Il lavoro rappresenta allo stesso tempo un punto problematico e una risorsa da cui ripartire.
Ci sono aspetti peculiari interessanti rispetto a questo tema?
È interessante notare che attribuisce più importanza al lavoro sia chi è rimasto immobile negli status occupazionali più bassi, sia chi ha sperimentato una certa mobilità ascendente, per effetto di maggiori chances educative e di maggiori opportunità di carriera. Il peso assegnato al lavoro supera i valori medi tra gli agricoltori, gli artigiani, gli operai non qualificati, ma anche tra gli imprenditori e i professionisti. Con riguardo all’età, l’importanza del lavoro è massima nella fascia 30-34 anni che coincide con il periodo in cui l’inserimento nel mondo del lavoro richiede un elevato investimento delle proprie risorse motivazionali e professionali. C’è anche un altro aspetto interessante da notare.
Quale?
L’importanza assegnata al lavoro va di pari passo con il grado di soddisfazione professionale che ha registrato variazioni positive dal 1981 al 2009, anche se la massima soddisfazione è scesa di qualche punto percentuale; è sintomatico che la soddisfazione per il lavoro sia più alta tra chi svolge un lavoro autonomo (che in genere si associa a un orario esteso), piuttosto che tra chi ha un lavoro dipendente (che in genere si associa a orari più contenuti e prevedibili). Queste informazioni segnalano che il lavoro incide positivamente sull’autorealizzazione personale, di cui fa parte non solo la remunerazione e il prestigio, ma anche il senso di utilità e di responsabilità sociale.
Cosa emerge dal confronto tra le risposte date dagli italiani e dagli altri cittadini europei coinvolti?
Se confrontiamo le risposte date in ciascun Paese (quelle più interessanti sono riassunte nel grafico 1), notiamo che a dare “molta importanza” al lavoro sono soprattutto gli svedesi (al 1° posto con il 91% dei consensi), mentre all’ultimo posto si collocano i finlandesi (con il 34% dei consensi); gli italiani si collocano al 13° posto, con un valore che supera la percentuale media (64% vs. 59%), preceduti dai francesi (al 10° posto: 67%), ma in vantaggio rispetto agli spagnoli (al 18° posto: 62%), agli austriaci (al 31° posto: 54%), ai tedeschi (al 38° posto: 49%). Su queste pagine Gianfranco Fabi ha segnalato che si deve tener conto anche dello spread tra i valori e le motivazioni; nel caso della motivazione al lavoro lo spread degli italiani è positivo nei confronti di molti altri competitor europei. Il nostro spread negativo per produttività e competitività deriva, in effetti, da inefficienze di altra natura.
Grafico 1 – Lo “spread” tra i valori: la classifica per paese degli aspetti considerati più importanti nella vita quotidiana
Cosa conta di più nel lavoro per gli italiani?
Per gli italiani, gli aspetti più importanti del lavoro coincidono con il guadagno e la sicurezza del posto, seguiti a stretta distanza dalla corrispondenza con le proprie capacità, dalla sensazione di realizzare qualcosa di utile (per sé e per gli altri), dall’avere un lavoro “interessante”. La dimensione pratica convive dunque con la dimensione espressiva, con una percentuale di consensi compresa tra il 77% e il 67%. Sul versante degli elementi meno citati è sintomatico notare che pochi intervistati considerano importante avere un lungo periodo di ferie (22%), ma anche un lavoro di responsabilità (43%). Le differenze di genere appaiono abbastanza contenute, mentre più decisive sono le fasce di età, con una sintomatica convergenza sulla sicurezza del posto di lavoro tra i più giovani e i più anziani.
Guadagno e sicurezza sono importanti per gli italiani. Come sono percepiti questi due aspetti del lavoro negli altri paesi?
Il ranking dei consensi rispetto al guadagno vede al primo posto gli albanesi (96%) e all’ultimo i danesi (54%), che vivono nel paese con la flexsecurity più avanzata; gli italiani si collocano al 36° posto con un valore inferiore alla media generale (76% vs. 84%). L’analogo ranking per la sicurezza del posto vede al primo posto i turchi (97%) e all’ultimo posto i francesi (27%), mentre gli italiani si collocano al 20° posto, al di sopra della media generale (75% vs. 70%). Rispetto ai cittadini dell’Europa a 15 gli italiani risultano più attaccati alla sicurezza del posto di lavoro, in linea con i residenti nei paesi con economie di mercato più giovani e più fragili.
Ci sono differenze particolari tra gli italiani riguardo la sicurezza del lavoro?
La sicurezza del “posto” trova decisamente sensibili sia i disoccupati (cosa del tutto comprensibile), sia i pensionati, cioè i più anziani, verosimilmente preoccupati non tanto per se stessi quanto per i loro discendenti più giovani. La socializzazione al lavoro stabile è stata peraltro un tratto tipico delle generazioni più anziane cresciute nella fase fordista dell’industrializzazione. Gli occupati avvertono questa tematica in misura inferiore alla media, risultano però particolarmente sensibili al bisogno di conseguire obiettivi costruttivi attraverso il lavoro, che è dunque visto non tanto come un peso, quanto come un’espressione del desiderio di conseguire mete positive.
In Italia riusciamo ancora a conciliare famiglia e lavoro?
La centralità attribuita sia alla famiglia che al lavoro nell’ambito della vita quotidiana segnala il desiderio e nello stesso tempo la necessità di conciliare tra loro questi aspetti, non solo sul piano soggettivo, ma anche dal lato dell’organizzazione sociale. Sotto questo aspetto il bilancio risulta però assai deludente se si guarda anzitutto alla bassa natalità che affligge da decenni gli italiani e alla correlata carenza di servizi sociali e di tempi di lavoro a sostegno della conciliazione tra carichi familiari e impegno lavorativo (asili nido, tempo scolastico prolungato, part time, congedi parentali, ecc.). Questa situazione già di per sé negativa viene inoltre aggravata.
Da che cosa?
Dallo sfavorevole trattamento fiscale della famiglia con figli minori a carico che richiederebbe l’introduzione, anche nel nostro Paese, del cosiddetto quoziente familiare, per rendere possibile una scelta più libera tra lavoro extradomestico e lavoro di cura intrafamiliare. Sul piano pratico, la conciliazione tra famiglia e lavoro permane a carico soprattutto sulle donne, con effetti negativi sulla loro entrata o sulla loro permanenza nel mercato del lavoro. Una situazione complessiva sempre più difficile da sostenere, considerato anche l’allungamento dell’età lavorativa richiesta dalla sostenibilità della spesa pensionistica.
L’Italia è stata spesso accusata di non avere una “etica del lavoro”, diversamente da altri paesi europei. È così?
I risultati dell’indagine smentiscono questo luogo comune: l’etica del lavoro è un punto di forza del nostro popolo, che invece resta relativamente debole su altri aspetti dell’etica pubblica e del senso civico. L’idea che il lavoro abbia in sé una serie di potenzialità espressive e svolga funzioni educative riconducibili sinteticamente al valore dell’operosità e della responsabilità non risulta indebolita dall’incerta congiuntura economica e sociale in cui viviamo, semmai è potenziata con una gamma di posizioni.
Di che cosa si tratta?
Esse spaziano dall’“antiopportunismo” che considera lesivo della dignità personale ricevere denaro senza averlo “guadagnato” con il proprio impegno, allo “stakanovismo” (per il quale il lavoro deve essere messo sempre al primo posto). Le risposte ottenute pongono al primo posto l’idea che il lavoro è condizione necessaria per superare la pigrizia (d’accordo: 74%), per dispiegare appieno le proprie doti (d’accordo: 71%), per collaborare responsabilmente al bene comune della società (d’accordo 68,6%), per evitare l’opportunismo e l’assistenzialismo (65%), mentre risulta poco condivisa ogni sorta di stakanovismo (d’accordo: 46%) che implica il sacrificio anche del tempo libero. Sulla base di questi indicatori è stato costruito un indice di centralità del lavoro.
Questo indice mette in evidenza qualcosa di interessante?
Risulta che la maggioranza degli intervistati (56%) si colloca in posizione intermedia; il 27% attribuisce un’alta centralità al lavoro e la parte restante (17%) una bassa. In relazione alle singole professioni, la centralità del lavoro è massima tra gli artigiani, gli operai specializzati, i coltivatori diretti e i braccanti agricoli, i militari e i poliziotti; di conseguenza, l’alta considerazione per il lavoro è più diffusa tra i ceti medi autonomi rurali e urbani e i ceti operai; la centralità del lavoro è invece più bassa tra i membri delle classi dipendenti medio-basse, formate principalmente da impiegati esecutivi.
Ci sono dati interessanti relativi ai giovani, che spesso vengono accusati di aver smarrito il senso e l’importanza del lavoro?
In contrasto con diffusi luoghi comuni, la visione emancipativa del lavoro e la voglia di lavoro per sviluppare le proprie doti ottengono le maggiori preferenze anche tra i più giovani (18-24 anni) che in tal modo evidenziano un implicito disappunto per le difficoltà di accesso al mondo del lavoro, considerato come diritto negato piuttosto che come condanna da evitare. La frequente dipendenza economica dalle famiglie d’origine rende i giovani più cauti nel “demonizzare” il denaro non guadagnato; decisa è peraltro la loro contrarietà a un’idea stakanovistica del lavoro a scapito del tempo libero, facendo intravedere una dialettica tra voglia di lavoro e propensione al sacrificio oltre i livelli ritenuti “equi” e “sostenibili” . È però sintomatico che i 30-34 enni, maggiormente inseriti nel mondo del lavoro accettino maggiormente l’ipotesi di sacrificare il tempo libero al lavoro.
Lei rileva che la dimensione “pratica” convive con quella “espressiva”. Alla luce dei dati complessivi del lavoro da lei coordinato, come si evolverà in futuro questo equilibrio?
Si può dire che nel mezzo della crisi sta emergendo una rinnovata “voglia di lavorare” che riequilibra fortemente la “voglia di consumare” su cui si è basato negli ultimi anni il modello di sviluppo delle economie avanzate. Questa rinnovata “centralità del lavoro” che contrassegna, come un brusco risveglio dopo un’ingannevole sogno, la fase contemporanea dell’opulento occidente capitalistico, non annulla la ricerca dell’espressività nel lavoro, ma rivaluta la componente “necessaria” di una risorsa scarsa sul piano quantitativo e qualitativo.
Nella gerarchia degli aspetti importanti si vede che la politica occupa l’ultimo posto. Come si può interpretare questo fatto?
Il confronto con gli altri paesi coinvolti nell’indagine aiuta, anche in questo caso, a interpretare questo orientamento con più equilibrio: siamo al 20° posto, in media con le tendenze generali, che vedono in testa gli svedesi e in ultima posizione gli sloveni. La scarsa considerazione degli italiani per la politica è una costante dal 1981 al 2009; l’aspetto preoccupante è che nel frattempo è aumentata la sfiducia verso le istituzioni politiche (governo, parlamento, pubblica amministrazione, partiti) e verso l’efficacia della democrazia. L’88% degli intervistati è favorevole alla democrazia rappresentativa, ma quando poi si scende nel dettaglio la situazione si fa più contradditoria.
In che senso?
Il 41% è infatti favorevole a un governo formato da tecnici non eletti dal popolo (notare che le interviste sono state realizzate prima dell’insediamento del Governo attuale). Lo scontento nei confronti dei partiti politici sale rispetto alla rilevazione del 1999, andando a toccare un non invidiabile 82% . Male anche stampa e sindacati mentre reggono esercito, polizia e Chiesa. In antitesi allo scetticismo verso la politica istituzionale sta l’interesse e il coinvolgimento pratico in forme di partecipazione “diretta” alla vita politica, mediante forme non convenzionali che vanno dalle petizioni, alle manifestazioni di protesta estrema.