Inaugurata grazie a un’accelerazione impensabile secondo i ritmi parlamentari tradizionali, la riforma delle pensioni lascia a tutti l’amaro in bocca. E il dubbio, anzi, la certezza che qualche tempo in più per riflettere sarebbe stato sufficiente a impedire i drammi che si stanno consumando per alcune famiglie. Quelle di chi, ad esempio, ha 55 anni, non ha la pensione, non ha un lavoro, e difficilmente si trova nelle condizioni, data la sua età, di ricollocarsi agilmente. «La riforma è stata varata con il fiato sul collo; il che ha determinato una serie di problemi interpretativi che daranno un sacco di lavoro ad avvocati e giuristi. Effettivamente, quindi, restano aperte una serie di questioni che andranno necessariamente affrontate. Per una ragione giuridica e morale», afferma, raggiunta da ilSussidiario.net Paola Olivelli, professoressa di Diritto del Lavoro presso l’Università di Macerata. «Occorre – continua -, anzitutto, dirimere la vicenda, per l’appunto, degli esodati per i quali non valgano le deroghe previste dalla riforma e che, avendo stipulato delle intese con la propria azienda per andare in pensione anticipatamente dietro incentivo, ma senza aver rispettavo i crismi della nuova disciplina vigente, si ritrovano senza lavoro e senza trattamento previdenziale».



Altro grande tema che la riforma non ha neppure lambito, è quello dei lavori usuranti. «Si tratta di una telenovela senza fine. Per anni si sono annunciati provvedimenti che sanassero definitivamente la loro situazione, ma non è mai stato fatto nulla di risolutivo. A partire dalla definizione esatta delle tipologie che, effettivamente, rientrano in tale categoria e che necessitano di un’anticipazione dell’uscita dal lavoro rispetto agli altri». Al momento, costoro vanno in pensione con il regime precedente alla riforma. Ma senza lo “sconto” di tre anni che aveva previsto il governo Berlusconi. «La materia, inoltre, è sempre stata ripresa da norme e definizioni generali che, di fatto, stentano a trovare una corretta applicazione».



Vi è poi la questione dei lavoratori precoci, tra tutte, per la Olivelli, forse quella meno grave. «Sta di fatto che non si capisce perché una differenza anagrafica di pochi mesi o pochi anni dovrebbe comportare l’esclusione dalle deroghe. Si tratta pur sempre di persone che hanno iniziato a lavorare a 15-16 anni e che difficilmente possono continuare a farlo, una volta ottenuti i requisiti secondo il vecchio regime, ancora per lungo tempo. Anche in tal caso, occorre rimetter mano alla normativa. Tanto più che, numericamente, si tratta di ben poche persone». Secondo il Libro bianco diffuso dal commissario europeo per l’Occupazione e gli affari sociali Làszlò Andor, l’Italia non solo ha raggiunto gli obiettivi preposti e, dall’Europa, imposti; ha fatto molto di più, connotandosi come il Paese ove, già dal 2020, si andrà in pensione più tardi, a 66 anni e 11 mesi sia per gli uomini che per le donne, contro i 65 e 9 mesi della Germania e i 66 della Danimarca. Che dire? 

«Prima – dice – andavamo in pensione tra i 57 e i 60 anni. Sembra quasi si sia deciso di far scontare oggi i privilegi di un tempo. Con il risultato che le nuove generazioni si accolleranno i costi dei vantaggi di quelle precedenti. Il divario tra giovani e anziani, quindi, si amplierà ulteriormente». Per colmare la frattura, non vi è che una strada: «Occorrerà affidarsi maggiormente ai sistemi pensionistici complementari, ipotizzando un’integrazione con il sistema pubblico che sia più libero di quello attuale. Contemplando, ad esempio, l’ipotesi, già prevista dalla Costituzione, di affidare alle regioni maggiori competenze e libertà in materia previdenziale».