Il sentire comune e l’opinione degli specialisti convergono, salvo le dovute sfumature: la riforma delle pensioni è stata realizzata secondo ragionamenti meccanici, costruzioni artificiose che ignorano la regole della matematica sociale e si curano esclusivamente di taluni singoli aspetti pratici prescindendo da una visione organica della vita collettiva. Vediamo, anzitutto, i principali cambiamenti contenuti nella versione definita del provvedimento, secondo gli ultimi aggiustamenti licenziati dal Parlamento con la conversione in legge del decreto Milleproroghe. Spiega, contattato da ilSussidiario.net Maurizio Del Conte, professore di docente di Diritto del lavoro e Diritto privato presso l’Università Bocconi: «A tutti sarà applicato il sistema contributivo, in modo tale che il valore di quanto ottenuto nel proprio trattamento previdenziale sarà una conseguenza di quanto si è versato nella propria vita lavorativa e non una variabile indipendente». Viene, inoltre, eliminata progressivamente la pensione di anzianità. «A partire dal 2012 per ottenerla prima dell’età della vecchiaia (66 anni) occorreranno per gli uomini 42 anni e un mese e per le donne 41 e un mese. Nel 2013 il requisito sale a 42 e 2 mesi, per attestarsi a 42 e 3 mesi a partire dal 2014 (per le donne vale sempre un anno in meno). Se si chiede la pensione anticipata, tuttavia, l’assegno corrisposto subirà una riduzione pari al 2% per ogni anno di anticipo (a meno che non si raggiunga il requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017)».



La misura, già di per sé, non è esente da criticità: «Ci si scandalizza che si vada in pensione a 58-59 anni; ma si tratta, per lo più, di persone che hanno iniziato a lavorare a 14-15 o 16 anni svolgendo, prevalentemente,  lavori usuranti. Ovvero: vogliamo mandare i 60enni sui ponteggi?». A proposito di tale categoria lavorativa, afferma Del Conte: «Non aver contemplato per essa meccanismi di salvaguardia è un altro limite di questa riforma. Sarebbe stato necessario rielaborare e definire una volta per tutte chi ne fa parte. Tanto più che disponiamo di un sistema di medicina legale estremamente raffinato e ottimi sistemi di classificazione». Secondo Del Conte, il peccato originale del riforma risiede nell’avere tenuto in considerazione finalità e prospettive meramente economiche. «Il che, se da un lato, era necessario, dall’altro non esimeva dall’accompagnare una serie di situazioni che richiedevano attenzione». Tra questi ci sono gli esodati. «Si tratta di coloro che in seguito a un accordo di mobilità verranno espulsi dal posto di lavoro trovandosi senza contribuzione reale e figurativa e senza salario, per 4 o 5 anni. Un periodo che, ovviamente, non può essere posto in capo alle imprese, perché sarebbe per loro un colpo durissimo; del resto, questi lavoratori, non potranno vivere di nulla».



Quale soluzione adottare? «Qualsiasi provvedimento non potrà limitarsi a fissare una data entro cui ritenere valido l’accordo per godere delle deroghe che consentono di andare in pensione con il regime precedente (attualmente è il 31 dicembre 2011), ma dovrà far in modo che nessun esodato resti in una situazione di perdita contributiva e salariale». Si tratta, inoltre, di un numero di persone, tutto sommato, contenuto: «Sono intorno ai 60mila. Sfuggono alle statistiche, tuttavia, parte degli esodi, le cosiddette dimissioni volontarie; quelle, cioè, che non sono  censibili perché non passano attraverso il sistema della mobilità (e, quindi, dell’Inps) ma attraverso un semplice accordo privato». È lecito nutrire un’altra serie di dubbi sulla bontà del provvedimento: «Per anni – continua Del Conte – si è discusso di scalini e scaloni ove, pur nell’obiettivo imprescindibile di innalzare l’età in virtù dell’aumento dell’aspettativa di vita, si teneva conto di una certa e necessaria gradualità. Questa riforma, invece, farà sì che, mentre fino a oggi l’Italia era tra i Paesi dove si andava in pensione più tardi, sarà, nel 2020, quello che avrà l’età pensionabile più alta». 

Questi cambiamenti radicali determineranno reali traumi per la situazione sociale del Paese. «Avere come unico obiettivo il dare un segnale ai mercati prescindendo dalle persone, sortisce effetti sui mercati stessi e l’allentamento della coesione sociale determina conseguenze pratiche sul piano economico. Tanto più che i costi delle nuove tasse introdotte dal governo non sono ancora stati avvertiti». In conclusione, «sarebbe necessario modificare, in maniera elastica, la drasticità dell’aumento, introducendo dei principi di gradualità che, in ogni caso, salvaguardino la tenuta dei conti ma consentano alle persone di pianificare in maniera più razionale la propria uscita dal lavoro».

 

(Paolo Nessi)