Afflizioni, sacrifici, privazioni e ogni genere d’incertezze valgon bene le compensazioni offerte dalla mirabile riforma del sistema previdenziale; la panacea di tutti i mali che, d’un tratto e finalmente, ci introduce nella modernità, mettendoci al passo con gli altri paesi europei – per definizione, sempre più civili ed evoluti -, salvo accorgerci che, per la fretta, ce li siamo lasciati, alle spalle. Perché, nel 2020, saremo il Paese ove si andrà in pensione più tardi. Ora, però, chi glielo spiega a quei giovani che già si immaginano arzilli 70enni alzarsi alle 6.30 di mattina, prendere il caffè, e andare al lavoro, che tutto ciò non è servito a niente? Luca Spataro, professore associato di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Pisa contattato da ilSussidiario.net spiega perché il sistema è ben lungi dall’esser stato messo in sicurezza. «L’Italia è un Paese che sta invecchiando e la transizione demografica nella quale ci troviamo necessita di un monitoraggio del sistema previdenziale, nei prossimi anni, molto serrato», afferma. Vivremo, infatti, tutti più a lungo. «Le previsioni di Eurostat affermano che l’aumento della speranza di vita, già tra le più alte d’Europa, nei prossimi decenni salirà di ulteriori 6-7 anni; entro alcuni anni, inoltre, si troveranno in pensione i Baby-boomer, i lavoratori nati negli Anni ’60, numericamente molto alti».
Le conseguenze sono evidenti. «La spesa previdenziale, nei prossimi 15-20 anni, prima di assestarsi, continuerà a salire. Un bel problema considerando che, attualmente, si attesta attorno al 14-15% del Pil e che il Pil, dal canto suo, non cresce». Fosse l’unico problema; «a fronte di questo, i giovani sono disoccupati, mentre l’Italia non fa figli. Alla famiglia non le si riconosce il ruolo di welfare sussidiario che sta svolgendo, mentre le si imputa la colpa dei bamboccioni o degli “sfigati”; eppure, la spesa sociale per essa è la metà di Paesi quali Francia, Germania, Svezia».
Tra le questioni fondamentali, c’è ovviamente il rilancio dell’economia. «In tal senso, occorre maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, con il riordino dei contratti in ingresso e la rivisitazione – non l’abrogazione – dell’articolo 18. È necessario, inoltre, individuare ammortizzatori sociali che rendano meno drammatica l’esperienza della disoccupazione e consentano ai giovani di fare programmi di vita medio-lunghi senza doversi affidare alle famiglie di origine, per esempio, per accendere un mutuo». In seno alle aziende, poi, si dovranno cambiare le regole del gioco. «Serve che la contrattazione salariale sia, effettivamente, decentrata e resa proporzionale alla produttività, sia per i giovani che per gli anziani; se il salario, infatti, continua a essere commisurato semplicemente all’età, non potremmo continuare a lamentarci del fatto che molte aziende, costrette da costi esorbitanti, non riescono ad assumere e dovono praticare gli esodi». Per inciso, secondo Spataro, il problema degli esodati rimasti fuori dalle deroghe previste dal Milleproroghe va risolto a tutti i costi.
«È una questione di civiltà. Si tratta di persone che hanno preso decisioni importanti per la propria vita, accettando di uscire dal lavoro con regole ben precise rispetto alle proprie pensioni e che, ora, dato che gli hanno cambiato le regole in corso, si ritrovano senza lavoro e senza pensione». Tornando agli elementi incompiuti della riforma «il tasso di adesione alla previdenza complementare è ancora estremamente basso».
Ci sarebbero pertanto misure adottabili facilmente, a costo zero, come, ad esempio, la riduzione delle aliquote sui rendimenti dei fondi pensione». Ecco perché non dovrebbe, necessariamente, rappresentare un aggravio per lo Stato: «Tali rendimenti, tipicamente, sono più elevati di quelli del tfr. Diminuendo le aliquote, si potrebbe aumentare l’adesione e, di conseguenza, anche il gettito».
(Paolo Nessi)