“Cambiare tutto per non cambiare niente”? È questo l’inquietante interrogativo che prendo in prestito dalla gattopardesca frase del Tancredi riferita alla Sicilia nel corso del 1860 (“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”), e che oggi mi viene da associare – chissà perché – alla riforma dell’articolo 18 e dei licenziamenti, presentata alle Camere dal governo Monti, dopo una lunga e travagliata gestazione che ha visto un colpo di coda a effetto.



Com’è noto si era partiti da annunci roboanti: occorre riformare il mondo del lavoro e agevolare la flessibilità (oltre che in entrata) anche in uscita, in quanto l’Italia è l’unico Paese dove vige una legislazione molto rigida che prevede – in ogni caso – la reintegrazione del lavoratore ingiustamente o erroneamente licenziato (mi riferisco alle imprese che superino un numero minimo di dipendenti).



Era stata formulata una bozza che si diceva essere ispirata al modello tedesco e che prevedeva: il mantenimento del reintegro, nel caso in cui si licenzi un lavoratore per motivi che in giudizio vengano accertati come discriminatori (per la sua affiliazione sindacale, per la sua partecipazione a scioperi o per motivi legati a posizioni politiche, religiose, per motivi razziali, culturali o sessuali); la scelta giudiziale tra reintegro e un indennizzo – peraltro non indolore, ossia tra 15 e 27 mensilità – qualora il licenziamento venga assunto per motivi disciplinari rivelatisi inconsistenti; la corresponsione del solo indennizzo per i licenziamenti assunti per motivi economici, e quindi accampando ragioni produttive e organizzative dell’azienda non dimostrate in sede giudiziale (si tratta di quei licenziamenti che oggi si dicono sforniti di giusta causa oggettiva e per i quali è prevista sempre la reintegrazione del lavoratore).



Pur nella complessità della proposta di modifica, più o meno condivisibile a seconda delle diverse letture del mondo del lavoro, tra difesa della stabilità del posto di lavoro e ricerca della flessibilità, bisogna pur dire che detta proposta aveva un suo senso ben preciso. Si cambiava bene o male la legislazione vigente e si sostituiva la sanzione della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato con quella economica di un consistente indennizzo, fino a 27 mensilità, per tutte quelle ipotesi di licenziamenti non giustificati, ma non gravissimi, ossia non discriminatori, né pretestuosi o ritorsivi, cioè non intimati per motivi disciplinari del tutto inesistenti o peggio per vendetta, solo per i quali avrebbe continuato ad applicarsi la sanzione della reintegra.

La gravosità dell’indennizzo sarebbe poi stata sufficiente – nelle intenzioni del governo – a dissuadere le imprese dal procedere comunque con licenziamenti ingiustificati. Si consideri che oggi la sanzione del reintegro può essere sostituita dal lavoratore con la corresponsione di un indennizzo pari a 15 mensilità. Comunque, la riforma aveva il suo pezzo forte nella modifica della disciplina dei motivi economici e non è affatto vero che riguardasse ipotesi insignificanti e residuali. Le accese reazioni, soprattutto quelle negative, alla riforma, stanno a dimostrare che di modifiche effettive si trattava e non solo di facciata.

Ma ora tutto è nuovamente cambiato. Si torna – credo – al passato. Non a caso i giornali hanno titolato il nuovo mutamento di rotta del governo con un chiaro “torna il reintegro”. Più che altro, credo che le ultime novità pongano questioni di coesione interna alla nuova normativa. In sostanza, la modifica dell’articolo 18 non pare più avere una sua ragione ben precisa, un suo peso specifico. O si tratta di lasciare le cose come sono ora; oppure mi pare risulterà di ben difficile applicazione.

Intanto, si aumenta la complessità: anche in caso di licenziamenti per motivi economici, infatti, viene prevista la scelta del giudice se riconoscere l’indennizzo oppure (ancora) il reintegro “in caso di manifesta insussistenza dei motivi addotti”. In buona sostanza, anche nell’ipotesi di licenziamento per motivi economici, che costituiva l’ipotesi più innovativa della riforma, sarà il giudice a scegliere tra indennizzo e reintegrazione. E il discrimine tra la scelta sarebbe la “manifesta insussistenza dei motivi”.

A questo punto, però, la riforma non tiene più. Prima di quest’ultimo cambiamento, in caso di licenziamento dovuto – per esempio – a una riorganizzazione d’impresa comportante la soppressione del posto di lavoro, le ipotesi configurabili erano due. O l’impresa dimostrava la sussistenza del motivo economico, e allora il licenziamento risultava giustificato, senza alcuna sanzione né economica, né risarcitoria. Oppure il motivo economico non veniva provato, e allora l’impresa era condannata dal giudice al pagamento della (sola) sanzione economica, con la grande novità dell’inapplicabilità della sanzione del reintegro. Adesso, invece, nello stesso caso, sarebbero previste addirittura tre ipotesi: o il motivo economico sussiste, oppure non sussiste e in questo caso il giudice dovrebbe decidere se applicare l’indennizzo oppure la reintegrazione qualora vi sia “manifesta insussistenza” del motivo.

Sennonché, il motivo economico sussiste o non sussiste. Non mi pare possa essere individuabile l’ulteriore categoria della “manifesta” insussistenza. Che significa? O l’accampata riorganizzazione dell’impresa esiste ed è tale da giustificare il licenziamento, oppure non esiste o non è tale da giustificare il licenziamento. Non siamo nel campo del licenziamento disciplinare che può comportare una gradualità di situazioni, di cui solo le più gravi sono atte a legittimare il licenziamento. Qui il motivo economico che legittima la soppressione del posto di lavoro o c’è o non c’è. Non mi pare possa individuarsi l’ulteriore concetto del “manifestamente non c’è”.

Forse si dovrebbe distinguere tra un motivo economico che non c’è, ma che tutto sommato avrebbe potuto legittimare un recesso; e invece un motivo che non c’è e che in ogni caso, a prescindere, non avrebbe mai potuto giustificare un recesso? Se anche si riuscisse in questo improbabile intento, come si crede che si comporteranno i giudici? Probabilmente la prassi si attesterà nel riconoscere il reintegro in tutti i casi in cui risulterà insussistente il motivo, salvo quelle pochissime situazioni in cui il giudice stesso sia indeciso.

Inoltre, reintroducendo il reintegro, diventa decisivo sapere a chi spetti l’onere di provare l’insussistenza del motivo: al lavoratore o al datore? Sinora era il datore di lavoro che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, doveva provare non solo la sussistenza del motivo, ma anche l’impossibilità di riutilizzare il lavoratore all’interno della struttura aziendale, adibendolo a mansioni anche diverse, ma equivalenti, rispetto a quelle svolte in precedenza (cosiddetto “obbligo di repechage”).

Se l’onere dovesse essere confermato, il motivo economico si presumerà sempre insussistente. In tutti i casi in cui l’impresa non riuscirà a dimostrare il contrario potrebbe applicarsi il reintegro (esattamente come avviene ora). Se invece l’onere spettasse al lavoratore, il motivo economico si presumerà sussistente. Solo se il lavoratore riesce a provare che il motivo è pretestuoso potrebbe applicarsi il reintegro. Ma nulla che riguardi detto onere sembra previsto nella bozza di riforma e – stando così le cose – non vedo perché non debba procrastinarsi la prassi a oggi esistente (dell’onere a carico del datore di lavoro).

Allora, ho l’impressione che l’ultima modifica alla bozza di riforma non sia altro che il modo per reintrodurre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo, la sanzione della reintegrazione, esattamente come oggi (salvi residuali casi a discrezione dei giudici). Con buona pace di coloro – e penso al professor Ichino che pur da sinistra si sta battendo per ridurre la differenza tra insider e outsider, tra garantiti e non garantiti – che avrebbero visto di buon occhio la riforma Fornero. La controprova? La Camusso e la Cgil, che volevano il mantenimento dell’articolo 18 e si sono sempre battute per scongiurarne ogni ipotesi di modifica, hanno accolto con favore l’ultima modifica pur continuando a contrastare la riforma nel suo complesso.