Il disegno di legge del Governo sulla riforma del mercato del lavoro si avvia al suo percorso parlamentare accolto dalla sola voce dissonante di Confindustria. La sua lunga gestazione è il sintomo più chiaro del rallentamento pericoloso dell’azione del Governo che, dopo lo strattone sulla riforma delle pensioni, appare impaludato in quello stesso stagno della politica nel quale si sono dibattuti senza esiti significativi gli esecutivi della pomposamente e frettolosamente denominata Seconda Repubblica. La lettura del disegno di legge conferma la mia impressione che nel nostro Paese una sola forza sia sempre in minoranza, il riformismo, assediato da un coacervo impressionante di resistenze incrociate che non hanno per nulla a cuore gli interessi del Paese e molte volte nemmeno di chi formalmente sostengono di rappresentare.



Il prezzo pagato a queste forze è la conservazione dei totem irrinunciabili di un mercato del lavoro asfittico, ovvero il mito del contratto a tempo indeterminato e il mantenimento della discrezionalità dei giudici del lavoro sulle scelte delle imprese. A questi totem, saranno sacrificati sostanzialmente i giovani che ancora non sono entrati nel mercato del lavoro, senza nemmeno la vera tutela degli insider che certo non potranno difendersi dalla crisi sventolando la forma dei loro rapporti di lavoro.



Ne escono vincitori, in sostanza, quei sindacalisti che aspirano a un ruolo politico e quelle forze interne al Pd che continuano ad avere come proprio vero nemico più il riformismo che il conservatorismo della destra. Ne esce sconfitta ancora una volta l’impresa, che emerge sempre nell’immaginario costruito (anche da media compiacenti) come un’entità priva di responsabilità, dedita solo allo sfruttamento dei lavoratori e in sostanza un corpo estraneo della vita politica e sociale del Paese.

Ci sono diverse riflessioni, di tono tendenzialmente amaro che si possono fare, ma una è che non è un caso, visto che per l’ennesima volta i tecnici sono esperti di tutto tranne che di impresa e di lavoro nei luoghi in cui si origina e si interpreta. L’assenza dell’impresa nelle scelte politiche e tecniche è uno dei mali maggiori di questo Paese, affidato a economisti e giuristi del tutto incapaci di cogliere le implicazioni della realtà.



Il prezzo per salvare il contratto a tempo indeterminato è pagato in sostanza da chi oggi è occupato a tempo determinato e che si troverà di fronte a numerosissime barriere sia per la continuazione del rapporto, sia per il mantenimento dello stesso a causa del forte e punitivo incremento del periodo tra un contratto e il successivo. La stessa logica punitiva (di chi non fa parte della base dei sindacati?) si rintraccia nell’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego che esclude chi non ha un contratto di tipo subordinato da qualsiasi copertura. Le compensazioni per le imprese colpiscono ancora i più deboli, riducendo al 30% la percentuale di apprendisti da assumere per poter continuare a utilizzare il contratto di apprendistato.

Verrebbe da dire: forti con i deboli e deboli con i forti, atteggiamento che non si addice a un tecnico, ma a un politico accorto. Nel complesso davvero viene da citare il grande Bardo: tanto rumore per nulla. Nulla, infatti, ci dice la riforma del vero nodo che è l’eccessiva discrezionalità dei giudici del lavoro che rendono incerto l’esito anche dell’applicazione del nuovo articolo 18. È noto che i giudici del lavoro sono caratterizzati da scarse competenze economico-organizzative e da limitatissima omogeneità di giudizio, quindi lasciare a loro il compito di determinare così tanti aspetti non ottiene quello che è il primo tassello da cui doveva partire la riforma: la riduzione dell’incertezza delle decisioni relative al rapporto di lavoro.

Nulla ancora ci dice la riforma su come gestire e sostenere non solo economicamente, ma nella ricerca di un nuovo lavoro e di una nuova professione i lavoratori che saranno inevitabilmente espulsi nei prossimi anni. Perché, mi chiedo, se negoziare si doveva, non chiedere alle parti sociali di mettere in discussione la gestione ai limiti del ragionevole dei fondi interprofessionali e della formazione finanziata recuperando risorse di sistema lì? Nulla ancora sul fronte della creazione di nuovi posti di lavoro, grazie da un lato alla riduzione di incertezza che non si realizza e dall’altro a incentivi per l’imprenditorialità e per il trasferimento tecnologico o per le start-up.

In sostanza, una grande delusione, a mio parere, e la conferma che per il mercato del lavoro non vale quello che la ragionevolezza ci dice: se non ho gli ingredienti (crescita economica e posti di lavoro), cambiare la ricetta non serve a fare una torta. E a quel punto non conta nemmeno se la torta della nuova ricetta può sembrare più gustosa; tanto, come molti giovani, non la mangeremo mai…