Si è, infine, arreso il governo tecnico; e, sul fronte più qualificabile come tale, sta trattando con la politica. La riforma del mercato del lavoro non può essere condotta a termine senza il placet dei partiti. Monti ne è, ormai, persuaso e, al di là dei proclami di facciata del ministro competente, e delle minacce di dimissioni, la versione iniziale del provvedimento è stata, sotto svariati punti di vista, parecchio stemperata. Anche perché, alle istanze della maggioranza, si sommano quelle delle imprese. Per questo, i relatori della legge sono all’opera per trovare la quadra. E soddisfare le esigenze delle parti in causa, in particolare, su articolo 18, contratti a termine e partite Iva. Abbiamo fatto il punto della situazione con Carlo Alberto Nicolini, avvocato e docente di Diritto del lavoro.
Come valuta la riscrittura dell’articolo 18?
La struttura della norma è estremamente complessa. Tuttavia, salvo i casi discriminatori che prevedono la reintegra analogamente alla disciplina che si intende riformare, è stata introdotta un’importante novità. Ovvero: laddove non sussista il giustificato motivo o la giusta causa, si prevede l’alternativa tra la reintegrazione e il semplice indennizzo. Ma nel primo caso, l’indennità risarcitoria tra il licenziamento e la sentenza non potrà essere superiore alle 12 mensilità a differenza di adesso.
Ora che cosa è previsto?
Poniamo il caso che la sentenza arrivi dopo 4, 5 o, addirittura, 10 anni. A quel punto, l’azienda deve pagare al lavoratore un indennizzo pari a tutto questo periodo, compresi i contributi. Va da sé che per imprese con una ventina di dipendenti significa il fallimento.
Sembra cosa fatta il ridimensionamento dei poteri del giudice.
La discrezionalità non deve tramutarsi in arbitrio. È questo il caso in cui un giudice possa decidere tra indennità risarcitoria e reintegra piena. Al contrario, il magistrato dovrebbe aver facoltà, ad esempio, di graduare le indennità; si può ipotizzare che la loro entità cambi a seconda dell’anzianità o dei carichi familiari del lavoratore o del fatto che in seguito al licenziamento, ha avuto modo di ricollocarsi agevolmente o ha avuto difficoltà.
Un altro fronte caldo, è quello dei contratti a termine.
Oggi molte imprese ne hanno abusato, utilizzandoli in maniera ben più ampia di quello che prevede la legge, sostituendoli, di fatto, al Patto di prova. Esso può durare sino a sei mesi e sarebbe stato il caso, probabilmente, di ampliarne le maglie. Non è escluso che il legislatore, consentendo di non inserire la causale del rapporto per i rapporti inferiori a sei mesi e che rappresentano il primo contratto, di fatto, abbia permesso l’applicazione del Patto di prova a tutti i tipi di lavoro subordinato.
C’è poi la questione delle partite Iva.
La norma prevede che laddove fossero identificati alcuni criteri, salvo prova contraria, il lavoratore è attratto nella disciplina del lavoro a progetto. Mi sembra una misura sensata. Tanto più che, in fondo, non si fa altro che esplicitare il principio tale per cui anche in precedenza il lavoratore con partita Iva era soggetto alla disciplina e ai vincoli del lavoro a progetto.
Alcuni contestano il fatto che è stato rimosso il criterio del reddito. Non è pensabile, infatti, che chi fatturi 200mila euro l’anno debba essere sottoposto alla disciplina dei contratti a soggetto, anche se riceve dal medesimo committente almeno il 75% del proprio reddito o se il rapporto dura più di sei mesi.
Anche se non è stato esplicitato, i professionisti iscritti agli albi delle professioni intellettuali sono esonerati dalla nuova normativa, a patto che il contenuto concreto della propria prestazione sia riconducibile all’attività della professione intellettuale. Ovvero, l’avvocato che fa l’avvocato o l’ingegnere che fa l’ingegnere, non ricade nella disciplina del lavoro a progetto; ci ricade se, invece, l’ingegnere svolte, ad esempio, mansioni da segretario o da fattorino per l’azienda per la quale lavora.
Quali effetti ha prodotto la partita tra flessibilità in entrata e in uscita giocata tra le forze politiche?
Tutta la disciplina è estremamente equilibrata. Non mi pare che si diano grandi concessioni alla flessibilità in entrata; forse, sono più importanti quelle sulle flessibilità in uscita. Complessivamente, non mi pare che si sia stravolta la normativa sul mercato del lavoro; del resto, i problemi, ormai, non sono più di natura giuridica, ma politica.
(Paolo Nessi)