I lavoratori esodati sono persone il cui corso dell’esistenza è stato bruscamente deviato. Avevano concordato con la propria azienda le dimissioni, nella prospettiva di andare in pensione da lì a pochi anni in cambio di un congruo indennizzo. Con questo, sarebbero riusciti a vivere dignitosamente, in attesa di accedere al trattamento previdenziale. Poi, la riforma delle pensioni ha innalzato gli anni necessari per ottenere l’assegno. E si sono ritrovati senza un salario e senza pensione. Sono tra i 100 e i 357mila (una stima precisa non è ancora stata fatta) e, una volta esaurito l’indennizzo, rischiano, nella peggiore delle ipotesi, di rimanere senza salario e senza pensione per 4 o 5 anni. In certi casi, si stanno consumando dei drammi familiari, veri e proprie tragedie. E come ha liquidato la questione il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo? Semplice: affermando, ospite di In onda: «Gli esodati hanno firmato un accordo con le aziende: se cambiano le condizioni che hanno legittimato quell’accordo, secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico, possono chiedere che quell’accordo sia nullo». E, come se nulla fosse, tornarsene al lavoro di prima. Carlo Alberto Nicolini, avvocato e docente di Diritto del Lavoro presso l’Università di Macerata, spiega a ilSussidiario.net perché le cose non stiano propriamente in questi termini: «Non è del tutto esatto parlare di nullità in senso proprio. Casomai potrebbe sussistere l’eventualità di chiedere la risoluzione di tali accordi sulla base dei principi di presupposizione». Per intenderci: «Esiste, infatti, un orientamento della giurisprudenza della Cassazione secondo cui, quando le parti hanno come presupposto determinante per il raggiungimento di un accordo una determinata situazione di diritto, quale ad esempio un certo assetto legislativo, laddove tale cornice normativa cambi, esiste la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto per il venire meno delle condizioni della pattuizione».



Quindi, in riferimento agli esodati, «se un contratto di lavoro è stato risolto sulla base dell’ipotesi di andare in pensione entro una certa data, e in seguito all’accordo la data viene modificata, esiste la possibilità di invocare i principi della presupposizione». Ma attenzione: la pratica è tutt’altro che agevole. «Quanto detto sinora è vero in linea di principio. Concretamente, oltre a verificare caso per caso  la sussistenza degli estremi per agire, non vi sarebbe altra strada che quella di intentare causa all’azienda. A meno che, ovviamente, l’azienda non sia d’accordo a riassumere il lavoratore». In tal caso non si porrebbe nemmeno il problema. «Una causa di lavoro di questo tipo, inoltre, rappresenterebbe per il lavoratore una strada in salita. Tanto per cominciare, se avesse raggiunto un congruo incentivo all’esodo dovrebbe restituirlo. Spesso, inoltre, queste risoluzioni consensuali prevedono una serie di clausole che terminano definitivamente il contratto di lavoro, anche nell’ipotesi di eventuali pendenze di carattere economico. Vedo altrettanto improbabile parlare anche di incostituzionalità della norma». 



C’è un’altra questione che è stata mal posta. Circola, infatti, la voce secondo cui gli esodati non potrebbero lavorare se non rinunciando al proprio incentivo. «Non è vero – afferma Nicolini -: Chi ha preso un incentivo lo ha preso per cessare il rapporto di lavoro. Per fare una risoluzione consensuale o per non impugnare il licenziamento intimato. A quel punto, si pone sul mercato come qualsiasi altro lavoratore. Con l’handicap, ovviamente, di essere un lavoratore  anziano e, probabilmente, con scarso appeal dal punto di vista occupazionale. Ma, d’altro canto, se gode di trattamenti di sostegno al reddito può essere assunto con sgravi contributivi».



 

(Paolo Nessi)