Andiamoci piano a deteriorare le condizioni di lavoro dei giovani: c’è il rischio che quelli bravi una volta formati se ne vadano a lavorare dai nostri concorrenti. Parola di Ernesto Gismondi, imprenditore “illuminato” – è il caso di dire, visto che progetta e produce oggetti di arredamenti da illuminazione, insomma lampade di design, col suo marchio Artemide. Gismondi ha lanciato un allarme: trovare personale giovane e qualificato non è facile, il rischio concreto è che se non si dispone di contratti in qualche modo vincolanti, capaci di motivarli a restare a lungo dipendenti della loro azienda, possano presto essere raggiunti dalle lusinghe di qualche concorrente, magari internazionale, magari più grande, magari più ricco, e andarsene via, portando con sé tutto il know how acquisito. E Gismondi rimpiange i tempi in cui lui, giovane ingegnere aeronautico, era stato assunto alla Breda con un contratto che prevedeva un impiego minimo di cinque anni, con una salata penale in caso di dimissioni anticipate.
Ora, Gismondi segnala un problema reale, ma non è facile capire in che contesto e in che modo ne auspica la soluzione. Ovvero: qualunque azienda può da sempre condizionare l’offerta di un posto di lavoro all’accettazione di un contratto che includa una clausola dissuasiva dalle dimissioni volontarie ravvicinate. Insomma: io voglio assumerti, ma per almeno cinque anni; se te ne vai prima mi paghi una penale in denaro. Non è una norma “contra legem”, non è come pretendere che qualcuno si renda disponibile per contratto a violare una legge generale: non a caso è una regola diffusa in molti sport che il singolo atleta non disponga liberamente del suo “cartellino”, se non c’è l’interessato consenso della società sportiva.
Di solito, però, a fronte di simili ingaggi a doppia faccia ci sono profumatissime retribuzioni e mille benefit. E proprio Artemide, tra l’altro, di benefit ne offre ai suoi dipendenti, è nota per essere un’azienda dal volto umano… E allora? Bizzarra pretesa, quella del pur illuminato Gismondi. Assuma chi può, tratti bene chi merita e sia contento di chi resta: cos’altro può pretendere dalla vita, dal mercato e dalle regole?
La verità è che seguire il dibattito sulle regole del mercato del lavoro in questo periodo è istruttivo e a volte deprimente, perché tutte le elucubrazioni e i confronti conducono comunque alla stessa conclusione, se si vuol guardare con equanimità alla diatriba: per gli imprenditori il lavoratore migliore è quello licenziabile quando si vuole, ingaggiabile a basso prezzo e obbligato a restare a lungo in azienda se bravo; per i sindacati, il contratto di lavoro migliore è quello che comporta solo diritti e nessun dovere.
La Confindustria ha invocato per mesi l’abolizione dell’articolo 18 contro i licenziamenti individuali; quando l’ha ottenuto, si è resa conto che la contropartita imposta alle imprese dal governo, stavolta per oggettiva equanimità, era una forte stretta sulla flessibilità in entrata, che invece per troppe imprese, dalla legge Biagi in poi, era speculativamente diventata di fatto un insieme di regole studiate per non dover mai assumere nessuno in pianta stabile e poter pagare due lire anche i lavoratori più professionalizzati.
Stage gratuiti interminabili, contratti a termine infinitamente ripetibili, contratti a progetto senza progetto, contratti interinali senza ragioni di provvisorietà reale, consulenze a partita Iva impraticabili senza l’utilizzo quotidiano delle strutture aziendali… Insomma, un armamentario di espedienti per aggirare le leggi. Che, applicate un po’ da tutti, hanno inquinato il mercato del lavoro, riducendo di molto l’offerta di posti a tempo indeterminato non per effettive ragioni di incertezza prospettica economica, ma per la comune tacita convenienza a non offrirli.
Dall’altra parte, nella gloriosa casistica di contenzioso dei sindacati dei lavoratori a tutela dei loro iscritti c’è un infinito repertorio di protervi pelandroni intoccabili pur essendo documentabilmente improduttivi, spesso eletti rappresentanti sindacali da masse inconsapevoli di colleghi evidentemente tonti, visto che a rappresentarli scelgono spesso soggetti indegni.
Lo sforzo di equità di un governo che volesse riformare una simile giungla di opposte ipocrisie era davvero schiacciante. E, ciò premesso, in fondo il risultato della riforma non è stato malaccio, ammesso che passi com’è. Alla condizione però – che invece il governo ha clamorosamente mancato – di non presentarla al Paese, alla politica e alle parti sociali come la panacea della nuova competitività italiana, che nei fatti non ne viene per niente esaltata, ma semplicemente come una specie di passaporto normativo agli occhi delle istituzioni europee, sostanzialmente inconsapevoli delle peculiarità italiane e solite guardare (e giudicare) l’Italia come se fosse il Burkina Faso.
Insomma, l’Unione europea ci ha chiesto quasi un anno fa di abolire l’articolo 18, senza rendersi conto che non era assolutamente il problema della nostra scarsa competitività. Per Monti la scelta era tra convincere i nostri partner che hanno torto oppure obbedire. Come sta facendo sempre, ha obbedito. E tanto bastava. Invece no, Monti ha tenuto a ripetere in tutte le salse e in mille occasioni che questa riforma ci salverà, il che paradossalmente non è e non sarà. E ha perso una buona occasione per tacere.