Oramai le statistiche ci inseguono. E tutte confermano ciò che da tempo già sappiamo. Che non siamo più in grado di governare, con esecutivi più o meno tecnici, i mutamenti del nostro tempo storico. Incapaci di cogliere al volo e condividere almeno poche priorità, perché, alla fin fine, al di là di destra o sinistra, sono sempre gli interessi corporativi, individuali o di gruppo, ad avere la meglio. Interessi figli, nella migliore delle ipotesi, della sola cultura dei diritti, ma di diritti senza doveri, senza cioè responsabilità. Scaricando sugli altri, una solidarietà teatrale, le proprie responsabilità.



Allora l’unica cosa certa sembra essere una sorta di “timore e tremore”: ciò che non possiamo o vogliamo condividere alla fine la subiremo come una “forza del destino”. Manca dunque la politica, non i politici. Quella politica che ci può aiutare ad alzare lo sguardo per osservare in prospettiva i cambiamenti in corso, in modo da governarli, per quanto possibile, secondo alcuni ideali o valori di riferimento. Perché resta pur vero che i cambiamenti o si governano o si subiscono.



E la riforma del lavoro, con i tanti dubbi e perplessità da più parti denunciati, visto il compromesso al ribasso del testo del governo, è uno di quei temi sensibili che dicono se si stanno governando i processi o meno. Perché resta in primo piano la questione di come favorire, realmente, l’entrata nel mondo del lavoro. Senza più differenze, tra l’altro, tra lavoro pubblico e privato. Ma secondo regole uguali per tutti in ragioni delle pari opportunità.

Pari opportunità anche tra le generazioni, mentre per garantire i padri vengono sempre più sacrificati i figli. L’esatto contrario delle generazioni passate, che si sono sacrificate a più non posso per consentire ai figli ciò che i padri non hanno avuto. Se leggiamo in controluce la storia degli ultimi 50 anni, troviamo queste nostre diseguaglianze tra generazioni. Io temo che, prima o poi, esploderà un nuovo ‘68, meno ideologico, ma più vero, perché centrato sulla verifica del vissuto ordinario. Perché ai figli viene chiesto ciò che i padri non sono disposti a concedere?



Qualcosa di buono, nel testo del governo, lo troviamo: penso alla lotta contro le forme abusive di flessibilità, al tema dell’apprendistato, fortemente incentivato, con un 50% da stabilizzare, ai contratti di inserimento per gli over 50 disoccupati. Condivido, altresì, però, per l’impianto generale, l’analisi di Luca Solari pubblicata su queste pagine. Il destino che toccherà alle giovani generazioni sarà quello di inseguire i frammenti, in attesa del momento fatidico del muro di gomma da varcare, cioè di un qualche posto fisso, non per realizzare dei sogni e dei talenti, ma per garantirsi una qualche sicurezza.

Una sicurezza, è bene ribadirlo, non centrata sulle competenze e sui talenti, ma su una garanzia agnostica, perché di struttura: chi è dentro è salvo, gli altri… Altro che “risorsa umana”, o “principio di persona”! Nel frattempo, vedremo moltiplicarsi o le fughe all’estero, oppure i cosiddetti contratti a gettone. L’ultimo caso, nel veneziano, riguarda il gruppo Pam, con 8000 giovani in fila per lavoretti nelle domeniche e nei giorni festivi.
Eppure, tutti sanno che in Italia è più difficile, di altri paesi, tanto il passaggio dalla posizione di occupato a quella di disoccupato quanto il passaggio inverso. Da noi i 4/5 degli occupati hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre è l’esatto opposto per i nuovi contratti, con i 4/5 a termine. Quale mobilità, quale ricerca di miglioramenti personali e stipendiali?
Il contratto a tempo indeterminato deve dunque tornare, come suggerisce Ichino, una forma normale di assunzione, allentando i vincoli allo scioglimento per ragioni economiche od organizzative. In poche parole, mi pare che, politici o tecnici, abbiano poco contatto con la vita reale, col mondo dell’impresa e di tutti i luoghi di lavoro. Ma tutti ragionino per assiomi libreschi e preconfezionati, cioè ideologici.
Resta l’altra domanda: se si devono facilitare l’entrata e l’uscita nel mondo del lavoro, come non rischiare di rendere permanente l’uscita, come cioè offrire altre opportunità di reimpiego attraverso, in particolare, la formazione continua. Dunque, la formazione. La vera priorità di un Paese rannicchiato su se stesso.