In Italia mancano 65 mila infermieri. Mancano nel senso che dovrebbero essere assunti, nelle casse delle Asl (molte, non tutte) ci sarebbero i soldi per pagarli, ma i bandi d’assunzione vanno deserti e, con ritmo molto più lento del necessario, finiscono con l’essere finalmente e tardivamente arruolati soltanto infermieri extracomunitari. In Italia la Fiat progetta di chiudere due stabilimenti automobilistici su cinque – per carità, Marchionne si è limitato a dire che li chiuderà “se non riuscirà a vendere auto italiane in America”, ma c’è da scommettere che ci riuscirà? – e quindi circa 10 mila persone rischiano il posto.
Del rischio-Fiat si parla ogni giorno, la Confindustria s’è spaccata sulla Fiat, il sindacato post-comunista della Fiom ne ha fatto una bandiera, e nessuno parla dell’assurdo in base al quale non ci sono infermieri da assumere. Ah, una cosa importante: è relativamente facile “formare” infermieri generici, quasi tutte le Asl più importanti dei rispettivi comprensori metropolitani sono in grado di farlo e lo fanno, ma quando trovano allievi, che proprio a quel mestiere non si candidano.
Secondo l’indagine annuale della Confartigianato, ci sono in Italia circa 180 mila opportunità di lavoro nel settore che non vengono colte perché i giovani italiani non vogliono fare i falegnami, gli idraulici, i piastrellisti, i muratori, i sarti, i calzolai, gli elettricisti, i riparatori… e quelle posizioni, quando va bene, finiscono con l’essere anch’esse coperte dagli extracomunitari.
Ebbene, è chiaro che stiamo parlando di mestieri che la nostra tradizione culturale (pseudo-culturale) colloca nelle fascia medio-bassa della gerarchia sociale: si tratta di lavori manuali, anche se pieni di concettualizzazione (sarà manuale pulire un vecchio infermo, ma somministrargli le cure nel modo appropriato è tutt’altro che solo manuale) e in alcuni casi (ma non tutti) retribuiti in misura modesta. Eppure, molto impiego pubblico è poco retribuito, in Italia, ma infinitamente più richiesto; molti ruoli operai incassano retribuzioni comparabilmente modeste, eppure sono un po’ più richiesti…
Insomma, dentro la crisi e dentro il ridimensionamento delle nostre aspettative economiche di vita, di consumi, di benessere, si nascondono anche alcuni antidoti alla crisi stessa. Se i giovani italiani, oggi, prendessero coscienza della necessità di considerare con occhio diverso scelte che magari fino a qualche anno fa non avrebbero preso in esame, potrebbero alla fine trovarsene molto soddisfatti, ben più che restando a casa da Neet (né studenti, né lavoratori, né in cerca di lavoro) ad aspettare la sorte.
In questo senso un piccolo passo in avanti potrebbe essere rappresentato dal contratto di apprendistato, forse la novità più significativa della riforma del mercato del lavoro varata dal Governo Monti e allo studio delle Camere. È un contratto rivoluzionario, anche se finora poco capito, non solo perché tende a limitare al proprio ambito le troppe, attuali modalità di accesso flessibile al mondo del lavoro – e quindi fa piazza pulita dei troppi abusi spesso praticati dalle imprese – ma soprattutto perché cerca di valorizzare il momento dell’apprendimento professionale sul luogo di lavoro che è proprio di tante attività, ma anche e soprattutto di quelle artigianali, proprio quelle trascurate dai giovani.
Oggi, con l’apprendistato, il giovane alle prime armi può essere assunto per tre anni e poi non confermato, se non meritevole o non più necessario all’impresa, ma nel triennio, a fronte di una retribuzione ridotta e di un onere contributivo in parte coperto dallo Stato, quindi di un basso costo del lavoro, l’impresa s’impegna direttamente o indirettamente a insegnargli il mestiere. È quel che le imprese sane, ben dirette, animate da imprenditori o capi illuminati, hanno sempre fatto. Ora è diventato canone di legge, agevolato finanziariamente. C’è da sperare che le imprese e i giovani se ne servano.
E qui occorre una precisazione. Le periodiche lamentazioni delle imprese contro il mondo della scuola e dell’università, rilanciate l’altro giorno in un convegno degli artigiani a Treviglio, le loro bordate ricorrenti contro la pubblica istruzione rea di non formare adeguatamente i giovani al lavoro, pur accoglibili sotto tanti profili tecnici, vanno però in parte rispedite al mittente. Nel tanto decantato modello tedesco, la scuola brilla – soprattutto sui versanti professionali e formativi – proprio perché da sempre, riconoscendo i propri limiti strutturali, vocazionali e esperienziali, bilancia e media il proprio ruolo didattico diretto con una stretta collaborazione con le imprese, chiamate a integrare sul campo la formazione dei giovani, ricevendone in cambio non solo sgravi economici, ma anche l’opportunità operativa della costante disponibilità di un vivaio di risorse fresche, competenti e già preparate, proprio in azienda, ai compiti che potrebbero essere chiamati a svolgere. È insomma arrivata l’ora in cui le imprese, oltre a continuare a chiedere cosa lo Stato e le sue leggi possono fare per loro, inizino a chiedersi cosa loro possono fare per lo Stato e per il Paese, incrociando i propri interessi con quelli comuni.
Infine: fatto il nuovo apprendistato, migliorati – volesse il Cielo – i rapporti scuola-impresa, resta da svolgere un’azione di sensibilizzazione pubblica alle opportunità rappresentate dai mestieri abbandonati. Sogno una Pubblicità Progresso – nel filone di quelle che fa la Presidenza del Consiglio su tutte le reti tv – che dica: “Ragazzo, in Italia mancano 65 mila infermieri. Se sei disoccupato, se hai voglia di lavorare aiutando gli altri e rendendoti autonomo, chiedi alla tua Asl. Forse ha bisogno di te”. È chiedere troppo, ministro Balducci?