Da qui alla sua approvazione definitiva, una volta sottoposta a tutta la trafila parlamentare e divenuta legge, ne passerà di acqua sotto i ponti. Per il momento, tra le limature della riforma del mercato del lavoro, ce n’è una che potrebbe assumere particolare rilevanza. Secondo il documento emanato dal Cdm, laddove un lavoratore contestasse un licenziamento economico, sostenendo il nascondimento di ragioni discriminatorie, dovrebbe sobbarcarsi l’onere della prova. Secondo alcune indiscrezioni sarebbe allo studio dell’esecutivo una modifica, per cui tale onere sarà posto in capo all’azienda, che dovrà dimostrare di essere nel giusto. «L’impressione è che non si tratti di un cambiamento da poco. Dal punto di vista della tutela del diritto è fondamentale. Cambia molto, infatti, se l’esistenza dei fatti contestati devono essere dimostrati dal datore di lavoro o dal lavoratore», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Guido Canavesi, docente di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Macerata. Vediamo in cosa consisterebbe il cambiamento: «A oggi (la riforma non è ancora legge ndr), la prova del giustificato motivo è in capo al datore di lavoro. Deve provare i fatti che giustificano il licenziamento economico mentre il giudice deve accertarne che tra essi e il licenziamento del lavoratore ci sia un legame di consequenzialità».
La disciplina vigente è diversa per i licenziamenti discriminatori. «La prova, in tal caso, è posta in capo al lavoratore. Ovvero, deve essere il lavoratore a dimostrare che il suo licenziamento è stato motivato da ragioni discriminatorie e non economiche. Il che, di solito, è impresa abbastanza ardua». Non solo: «La giurisprudenza ritiene che la ragione discriminatoria debba aver determinato il licenziamento in via esclusiva per poterlo definire illegittimo. Se ce ne fossero altre, lo si riterrà motivato da esse». Sembra un controsenso. «Il fatto è che, nell’attuale disciplina, la sanzione conseguente all’illegittimità del licenziamento è la medesima sia nel caso in cui sia legata alla natura discriminatoria del licenziamento, sia che esso sia privo di giusta causa o giustificato motivo». Per entrambi, si prevede la reintegra. «Per il lavoratore, dal punto di vista della strategia difensiva, cambia ben poco. Anzi, probabilmente conviene invocare l’assenza di giustificato motivo o giusta causa piuttosto che le ragioni discriminatorie vista la difficoltà nel dimostrarle».
Con la riforma, quindi, la normativa viene rivoluzionata: «A seconda del licenziamento, tanto per cominciare, varia la sanzione. Posto che il datore di lavoro nasconda dietro un giustificato motivo oggettivo un licenziamento discriminatorio, per ottenere il reintegro previsto in questi casi, se il documento emanato in prima battuta non fosse variato, l’onore della prova resterebbe in capo al lavoratore».
Contestualmente, il ministero della Giustizia è al lavoro per rendere le cause di lavoro decisamente più veloci, facendo in modo che tra un passaggio e l’altro non passino più di 30 o 60 giorni. «Il problema di rendere più veloce la giustizia sicuramente eiste. Non mi sembra, tuttavia, affrontabile senza incidere sull’organico e sul carico di lavoro». Resta da capire se, effettivamente, sussista un’urgenza tale da determinare un’accelerata così significativa. «Si giustifica – afferma Canavesi – in relazione alla rilevanza degli interessi in gioco per il lavoratore, quali la possibilità di potersi mantenere dignitosamente. Per tutte le cause di lavoro l’esigenza è di definire in tempi rapidi le controversie per evitare di incidere sui mezzi di sostentamento economici del lavoratore; d’altro canto, vi è l’esigenza della certezza delle relazioni giuridica in capo alla imprese, per evitare costi economici che risultino pregiudizievoli per la loro capacità concorrenziale».
(Paolo Nessi)