La recessione economica ha come sua peculiare caratteristica quella di abbassare i livelli della domanda dei beni di consumo e di conseguenza quella di abbassare i livelli produttivi delle imprese che, spesso, si vedono “costrette” a ridurre i livelli occupazionali; la diminuzione di questi ultimi, a sua volta, abbassa ulteriormente il livello dei consumi e così si mette in moto il classico cane che si morde la coda. Come uscirne?



Forse la prima risposta che dobbiamo darci è quella relativa al significato ontologico del lavoro. Dobbiamo, quindi, domandarci se il lavoro deve essere considerato alla stregua di uno dei molteplici fattori produttivi e, quindi, considerarlo solo un mero costo su cui l’impresa (che in questo caso si identifica con il capitale di proprietà) deve operare per rinvenire o mantenere i suoi desiderata livelli di surplus reddituale?



Se questa è la natura che attribuiamo al lavoro, allora risulterebbe corretta l’interpretazione capitalistica del fattore lavoro, secondo la quale esso è un fattore non primario, giacché questa caratteristica sarebbe posseduta solo dal capitale proprio investito nell’impresa che, di conseguenza, ha la precedenza a essere salvaguardato. Questo perché il capitale, secondo questa concezione, sarebbe il solo fattore produttivo che si assume il rischio d’impresa e, quindi, sarebbe l’unico fattore produttivo vincolato all’impresa che ne garantirebbe la sopravvivenza nello sviluppo tramite la postulazione dei necessari surplus reddituali e dei correlati livelli occupazionali.



Questa interpretazione dei rapporti fra capitale e lavoro all’interno delle imprese non è stata mai condivisa dalla Dottrina sociale della Chiesa: per essa, infatti, il lavoro non è solo un bene comune che deve essere sempre salvaguardato, ma è anche il fattore produttivo “originario” a cui spetta il primato rispetto al capitale che, invece, è sempre un fattore produttivo “conseguente” in quanto contemporaneamente il risultato e lo strumento dell’attività lavorativa dell’uomo. “Il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il ‘capitale’[…] rimane solo uno strumento o la causa strumentale” (Lab. Ex. 12).

Scrive Giovanni Paolo II nella Laborem exercens (punto 12): “Il lavoro è un bene per l’uomo – è un bene della sua umanità – perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, ‘diventa più uomo’”. In questa posizione logica, di fatto, viene collegato il lavoro nella stessa ontologia dell’uomo; l’uomo è tale perché è capace di lavoro. Il lavoro è un “actus personae” in quanto il suo valore etico “senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona” (Lab. Ex. 73).

Se si perde questo orizzonte di riferimento allora – così come viene affermato nel Compendio della dottrina sociale (271) – “il lavoro perde il suo significato più vero e profondo […], l’attività lavorativa e le stesse tecniche utilizzate diventano più importanti dell’uomo stesso e, da alleate, si trasformano in nemiche della sua dignità”.

Il che vale a dire che tutte le volte, e a prescindere dalla causa che spinge l’analisi, il fattore lavoro viene svincolato dalla persona che lo mette in essere e viene considerato come “una merce tra le altre merci” o un “mero costo” su cui si può operare asetticamente, allora si compie un’azione contraria all’etica del bene comune e al naturale diritto della persona. Queste sono le ragioni che portano ad affermare la priorità intrinseca del lavoro sul capitale Il capitale da un lato è il risultato del risparmi accumulato dalle ricompense del lavoro, dall’altro, una volta che si materializza come insieme dei mezzi di produzione diviene lo strumento usato dal lavoro per produrre nuova ricchezza economica che, nella sua parte risparmiata, andrà a costituire nuovo capitale potenzialmente generatore di nuove possibilità di lavoro.

Capitale e lavoro sono complementari l’uno all’altro, ma eticamente è il lavoro che detiene, secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, il primato, di conseguenza, così come osserva Pio XI, “è falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro” (Quad. anno, 54). Occorre che i entrambi i fattori produttivi collaborino per il perseguimento comune che deve essere rintracciato nella sopravvivenza dell’impresa. Entrambi, infatti, sono gli unici fattori produttivi che “abitano” nell’impresa e che sono destinati a subirne interamente il rischio di non sopravvivenza, mentre gli altri fattori produttivi (generalmente acquisiti da altre imprese o da professionisti) hanno la possibilità di subire parzialmente il “danno” conseguente.

Capitale e lavoro sono naturalmente interamente legati e coinvolti nell’attività e nei risultati gestionali. Partendo da questa constatazione la Dottrina Sociale ne auspica anche una fattiva compartecipazione alla gestione e ai suoi risultati perché “ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il ‘com-proprietario’ del grande banco di lavoro, al quale si impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali…” (Lab. ex., 14).

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