L’intenzione è quella di regolamentare una situazione derivante da anni di abusi, ove certe storture della disciplina stessa consentivano di avvalersi di strumenti per eludere la legge. Come la ben nota questione delle partite Iva. Alle aziende, un lavoratore in regola, assunto a tempo determinato o indeterminato, costerebbe infinitamente di più. E allora, in innumerevoli casi, si è fatto ricorso alle partite Iva. L’azienda non doveva così pagare contributi, straordinari, ferie, malattia, tredicesima e via dicendo, sottoponendo  tuttavia il lavoratore a un regime che prevedeva orari, o la possibilità da parte del datore di lavoro di determinare modalità e tempi di esecuzione per espletare le mansioni previste. «In effetti, si è fatto un uso abnorme di contratti che, in realtà, celavano forme di lavoro subordinato», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Pietro Antonio Varesi, professore di Diritto del lavoro. Ecco cosa cambia, sotto questo profilo: «Se il rapporto di lavoro soggetto a semplice partita Iva presenterà certi requisisti, si riterrà che consiste, in realtà, in una forma subordinata, e sussisterà l’obbligo per l’azienda di tradurlo in co.co.pro». Perché la dipendenza sia definibile tale «il lavoratore deve ricevere dal medesimo committente almeno il 75% dei propri compensi, lavorare presso di lui almeno sei mesi nell’arco di un anno e svolgere le proprie mansioni in una postazione di lavoro presso una delle sedi del committente».



Secondo il professore, si perso un elemento previsto dalla riforma emanata in prima battuta, che sarebbe stato bene mantenere. «Quello del reddito. Ovvero: si può presupporre che, benché la committenza assuma le forme della subordinazione, laddove garantisca un reddito particolarmente alto, non ponga particolari problemi. Come nel caso, ad esempio, di un ingegnere che lavora con partita Iva presso un committente per un anno ricevendone più del 75% del suo reddito ma fatturando 150mila euro». Si è deciso, in ogni caso, di concedere alle aziende una proroga di un anno, per adeguarsi. «Molti studi professionali e società di consulenza hanno manifestato il proprio dissenso totale. E’ possibile che di fronte a tali proteste si sia deciso di ammorbidire la norma».



C’è, poi, la questione dei contratti a termine; il primo contratto a tempo determinato, se inferiore a sei mesi, non comporterà l’obbligo di inserire la causale. «La norma è stata fatta – spiega Varesi – per ampliare i ricorsi ai contratti a termine al posto di quelli para-subordinati. Si spinge il datore di lavoro a tale forma rendendogliela più appetibile e, quindi, flessibile». Infine, si incentiva la stabilizzazione degli apprendisti. «Ma non è certo un’innovazione della Fornero» fa presente Varesi. «Da tempo, infatti, se un apprendista viene confermato a tempo indeterminato, l’azienda può godere, ancora per un anno, degli sgravi contributivi previsti per il periodo di apprendistato».



Ecco, in ogni caso, la verità: «Il “contratto dominante” di cui si parla, altro non è che il contratto di apprendistato. Al quale sono stati aggiunti ben pochi elementi. Quali il fatto, ad esempio, che se non si assumono a tempo indeterminato almeno il 30 per cento degli apprendisti, non si potranno fare nuove assunzioni con contratti di apprendistato». Da qui all’approvazione definitiva, sarà opportuno trattare la materia con i guanti. «Io stesso ho consigliato alla Fornero di modificare il meno possibile la disciplina sull’apprendistato, concordata tra Stato, Regioni e parti sociali».

Per quanto riguarda, invece, il passaggio dal contratto a termine a quello indeterminato, un piccolo, ma importante passo, è stato fatto: «Chi assume e tempo determinato deve pagare l’1,4% in più di contributi. L’assunzione a tempo indeterminato decurta quell’aggravio. Si tratta di uno dei punti qualificanti della riforma, finalizzati a disincentivare l’utilizzo dei lavori a termine; tanto più che i loro costi rischiano di ricadere sulla collettività, considerando che tra un periodo e l’altro di lavoro lo Stato gli dovrà pagare l’indennità di disoccupazione».

 

(Paolo Nessi)