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Qual è il criterio con cui va giudicata una riforma? Nell’attuale dibattito sembra che l’unico problema sia l’equa ripartizione delle risorse disponibili. Pur riconoscendo l’importanza di questo fattore, altri due vanno tenuti compresenti, considerati e verificati insieme: la crescita ottenibile dalle decisioni assunte e il loro orientamento al medio-lungo termine.



Nel dare un giudizio complessivo su una riforma, è anzitutto necessario domandarsi se sia in grado di creare valore, non solo incidendo sul Pil, ma anche sviluppando opportunità di crescita per la società intera. In altre parole, è necessario domandarsi se – per riprendere un’interessante distinzione di Paulo Coelho – si stia cercando semplicemente di “costruire” qualcosa, col rischio di finire per essere limitati dalle stesse pareti costruite, o se piuttosto si stia vivendo l’avventura di “piantare” semi per un nuovo giardino: “quelli che piantano soffrono con le tempeste e le stagioni, raramente riposano. Ma, al contrario di un edificio, il giardino non cessa mai di crescere. Esso richiede l’attenzione del giardiniere, ma, nello stesso tempo, gli permette di vivere come in una grande avventura”.



Non ci si può tuttavia arrestare nemmeno a questo interrogativo. Bisogna infatti verificare se una riforma possa costituire lo strumento per un’autentica solidarietà tra generazioni e quindi se le misure concepite esprimano una logica di medio-lungo termine; se siano, cioè, il frutto di scelte da “statisti” o da semplici “politici”, perché – come ebbe a dire Alcide De Gasperi riprendendo il pensiero di Paul Clarke – “un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”. Smettiamola con le facili demagogie che ricordano continuamente l’ovvia necessità di aiutare i giovani: riflettiamo piuttosto sul fatto che le decisioni sono buone quando durano nel tempo e consentono un migliore sviluppo per tutti.



Solo considerandola insieme a questi due fattori – crescita e orientamento al medio-lungo termine – l’equità giustamente perseguita assurgerà alla sua appropriata dimensione di fattore capace di garantire un’adeguata distribuzione delle risorse e delle opportunità che una riforma deve contemplare. Ma questa posizione unitaria va cercata e messa in atto fin dall’inizio del confronto, altrimenti nessuna negoziazione potrà mai ricostruirla: da una partecipazione al tavolo delle trattative che abbia come orizzonte la mera difesa dei propri interessi non potrà certo scaturire, come per magia, una qualche soluzione che trasformi interessi parziali e divisi in sintesi equilibrate e in grado di contribuire al bene di tutti.

Provando ora a giudicare la riforma del lavoro a partire dalle considerazioni appena svolte, va detto che il metodo della concertazione, che sembrava finalmente superato, ha fatto si che le premesse forti che stavano all’origine dei lavori – e cioè il raggiungimento di una maggiore flessibilità in uscita, una migliore flessibilità in entrata, il passaggio da politiche passive a politiche attive e il riconoscimento delle Agenzie per il lavoro (Apl) quali fondamentali fattori di sviluppo del mercato – siano state sostanzialmente disattese. La riforma non muta di fatto le condizioni in uscita e irrigidisce l’ingresso nel mercato del lavoro. Permette – è vero – un po’ di pulizia nei confronti delle forme di cattiva flessibilità, ma non coglie l’occasione di orientare e incentivare il sistema all’utilizzo della buona flessibilità, in un’ottica di flexicurity.

Le Agenzie per il lavoro, che a detta di tutti rappresentano la forma ideale di combinazione tra flessibilità e sicurezza, non vengono considerate se non per l’introduzione di capziose limitazioni: manca infatti anche un solo capitolo dedicato a loro né sono mai state coinvolte nella costruzione del decreto, nemmeno per conoscerne il punto di vista. La riforma si limita inoltre a dare consigli paternalistici circa le politiche attive, in un Paese dove persino le leggi più ferree, se non controllate efficacemente, vengono disattese e in cui campeggia pressoché indisturbato il lavoro nero.

Se queste sono le premesse è molto difficile che il Parlamento possa affrontare seriamente e con coraggio temi di tale portata. Il grande rischio, ora, è che ci vada di mezzo non solo l’equità, così fortemente richiesta al nostro Paese sia dalla Bce di Draghi che dall’Unione europea per superare il dualismo che caratterizza il nostro mercato del lavoro, ma soprattutto che venga pregiudicata la possibilità stessa di una crescita che consenta il raggiungimento di migliori condizioni future per ciascuno di noi.

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