Mesi di dibattiti, conflitti, mediazioni, mentre i ministri bandivano proclami di riorganizzazioni rivoluzionarie e annunci di rimedi taumaturgici per, poi, partorire il classico topolino. I risultati della riforma del mercato del lavoro, se ci saranno, saranno modesti. Cambia poco o nulla con i 27 emendamenti del governo, più i 15 dei relatori Treu (Pd) e Castro (Pdl) depositati ieri in commissione Lavoro al Senato. Martedì inizieranno le votazioni e, salvo sovvertimenti epocali, la nuova disciplina diventerà legge dello Stato entro la fine di maggio lasciando inevase le aspettative di lavoratori, imprese e mercati. Maurizio Del Conte, Professore di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano, ci spiega perché.
In generale, che idea si è fatto della riforma?
Temo che difficilmente potrà sortire effetti rivoluzionari. Cambia le regole, certo, ma non gli equilibri reali del mercato del lavoro; è priva di quelle misure in grado impattare realmente, determinando uno shock positivo in grado di dare nuova linfa all’occupazione.
Quali sono i principali nodi irrisolti?
Si parla tanto di flessibilità in entrata e in uscita; è stata ignorata quella funzionale. Ovvero, la flessibilità interna al lavoro, l’unica realmente in grado di rilanciare la competitività delle imprese.
Posto che siamo ancora in tempo, quali modifiche si dovrebbero apportare?
Si deve potenziare il ruolo della contrattazione decentrata, favorendo così i processi di innovazione interna, attualmente paralizzati dai numerosi vincoli imposti dalla disciplina vigente, nonché dall’ipotesi di riforma.
Pomigliano è un modello di riferimento?
In realtà, è il risultato di un sistema normativo che complica il rapporto tra la contrattazione collettiva e quella decentrata; non rappresenta un modello eccellente perché è l’esito di un compromesso fondato su presupposti sbagliati.
Quali?
Il contratto nazionale deve essere il contratto prevalente, mentre la legge non delega a sufficienza alla contrattazione di secondo livello.
Tra gli obiettivi dichiarati da chi ha realizzato la riforma c’era l’aumento dell’occupazione giovanile
A oggi, i giovani sono stati pressoché ignorati. La riforma si è concentrata su chi il lavoro ce l’ha invece che su chi deve ancora procurarselo. Il problema è tanto più grave se si considera il fatto che, accanto ai dati sconfortanti sulla disoccupazione giovanile, stiamo assistendo ad un inedito e inquietante fenomeno: la scomparsa dei giovani tra i produttori di reddito; le loro dichiarazioni dei redditi sono di giorno in giorno sempre di meno.
Cosa significa?
Da un lato, che tra i giovani si sono perse numerose posizioni di lavoro, dall’altro, che vanno sempre più a ingrossare le fila del lavoro sommerso.
Cosa può fare il governo?
C’è ancora il tempo per un intervento di spesa pubblica straordinario per finanziare i contratti dei giovani fino ai 29 anni. Con uno sgravio significativo alla contribuzione. Si dovrebbe avere il coraggio di introdurre un’aliquota secca del 10% relativa agli oneri contributivi per il datore di lavoro, per il prossimo biennio, su tutti i contratti regolari subordinati, preferibilmente a tempo indeterminato.
L’idea sembra parecchio costosa
La riduzione, oggi, è sostenibile per la finanza pubblica perché si ripagherebbe in due anni; il gettito perduto in termini contributivi previdenziali si recupererebbe attraverso il maggiore gettito derivante dall’incremento di persone soggette all’aliquota irpef; recupereremmo, inoltre, i redditi attualmente in nero.
In ogni caso, a quanto ammonterebbero le risorse necessarie?
A 800 milioni di euro.
A regime, quanti potrebbero essere i nuovi innesti nel mercato del lavoro?
Tra i 200 e i 250mila. Tant’è vero che i giovani spariti dalle liste dei contribuenti sono, per l’appunto, 200mila.
Vede particolari cambianti sul fronte dell’articolo 18?
La modifica all’articolo 18 non affronta la questione principale; si è affrontato il tema dei licenziamenti a partire dalla “coda”, ovvero dalla disciplina sulle sanzioni, invece che andando al cuore del problema; riformulando e definendo, cioè, una volta per tutte, i termini della giusta causa e del giustificato motivo. In questo modo si sarebbero dati ai mercati e alle imprese quel senso di sicurezza e quelle garanzie relative alla certezza del diritto che chiedono.
Coma valuta il fatto che si sia deciso, alla fine, di non applicarlo agli statali?
Anche in questo caso si è preferito non affrontare le criticità principali. La situazione, nel pubblico, è complicata dal fatto che laddove in sede giudiziale si ritenga il licenziamento illegittimo, la responsabilità è attribuita al dirigente che l’ha comminato. Sarebbe stato, quindi, sufficiente, ancora una volta, stabilire con chiarezza quando il dirigente può licenziare e quando non può farlo.
Cosa ne pensa, infine, dell’introduzione di un salario minimo garantito peri Co.Co.Pro?
Già oggi la legge, di fatto, prevede un minimo. Il corrispettivo viene, infatti, commisurato alle analoghe prestazioni di lavoro autonomo; faccio fatica, del resto, ad immaginare un salario mino che vada bene per un Co. Co. pro che fa, ad esempio, consulenza aziendale, magari strategica come per chi ordina un archivio. Non è possibile tirare una riga netta su un mondo così variegato.
(Paolo Nessi)