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Il 17 gennaio 2012 le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil hanno concordato un documento in cui si auspica il potenziamento “delle politiche attive finalizzate al reimpiego, con un rafforzamento dell’azione dei servizi per l’impiego e delle sinergie tra servizi pubblici e privati”; il 7 marzo Confindustria su Il Sole 24 Ore ha sostenuto che “la legge o i contratti collettivi” dovrebbero stabilire che una parte della somma destinata dall’azienda al lavoratore in caso di licenziamento “possa essere erogata sotto forma di servizi di outplacement, direttamente o tramite un contratto con un’agenzia privata o un fondo bilaterale”, vincolando al successo gli operatori, anche con l’obiettivo di reindirizzare le risorse assorbite dagli uffici pubblici allo “sviluppo della sussidiarietà nelle politiche del lavoro”. Bce e governo Monti, sin dagli esordi, si sono pronunciati a favore dell’eliminazione del dualismo nel mercato del lavoro e di una maggiore flessibilità e sicurezza in uscita.



Che fine hanno fatto queste dichiarazioni di intenti? Si è partiti dalla necessità di una maggiore flessibilità del sistema, coniugata con una maggiore sicurezza e certezza per tutti; si è poi affermata la necessità di risparmiare investimenti improduttivi per utilizzarli in modo più responsabile, educativo e capace di generare sviluppo; ma dove si è approdati? Purtroppo in tutt’altri lidi. La riforma non prevede alcun incentivo ad aziende che finanzino programmi di politica attiva, né misure volte alla velocizzazione della ricollocazione – utile a tutti e necessaria per ridurre l’impatto economico della momentanea improduttività del lavoratore – limitandosi a elargire consigli paternalistici in un Paese dove persino le leggi più ferree, se non controllate efficacemente, vengono disattese! Sarebbe auspicabile che almeno all’interno della preventiva procedura di conciliazione prevista dal disegno di legge fosse contemplato l’obbligo dell’impresa di sostenere il lavoratore licenziato, offrendogli – ad esempio – un voucher di servizi volti alla ricollocazione.



E invece? Nessuna logica sussidiaria, né di responsabilizzazione collaborativa del pubblico col privato, ma piuttosto una volontà centralista di controllo che ricorda i metodi in voga nel secolo scorso in molti Paesi a socialismo reale: si tende a perpetrare un ruolo primario del pubblico nella gestione del mercato del lavoro che finisce con l’assicurare posti di lavoro ai dipendenti pubblici più che ai disoccupati! Ma lo Stato non può porsi come unico depositario della coscienza, del bene del mondo e come unica fonte dell’ordine.

Le regole che lo Stato deve assicurare al lavoro dovrebbero limitarsi a definire le condizioni che consentono lo sviluppo del bene comune, con controlli ex-post su efficacia e regolarità del mercato del lavoro. E bene comune significa anche favorire – con tutte le forze e senza contrapposizioni ideologiche o paralizzanti dinamiche concertative – politiche attive del lavoro capaci di supportare le persone nel ritrovare un’occupazione, utilizzando tutte le infrastrutture e le migliori competenze degli operatori presenti sul territorio.



Come mai il nostro sistema non riesce a prendere decisioni adeguate su temi tanto evidenti e da tutti condivisi? Può un tale Paese sopravvivere a se stesso?

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