Per indagare e prospettare lealmente possibili soluzioni al problema della conciliazione del lavoro con gli impegni familiari, è necessario avere ben chiara la reale natura delle esigenze dei soggetti in gioco: il bambino, la mamma, la famiglia e la società, alla cui edificazione l’agire lavorativo è ordinato. Ne abbiamo parlato con Vittoria Maioli Sanese, psicologa della famiglia e direttrice del Consultorio Famigliare Ucipem di Rimini, autrice di diverse pubblicazioni (tra cui il bellissimo Ho sete, per piacere), oltre che mamma di sei figli.
A prescindere dalle esigenze lavorative, per un bambino piccolo è meglio trascorrere la giornata all’asilo nido o con la “mamma full time”?
Il bambino fino a tre anni è meglio che stia con la mamma, è un fatto suffragato da evidenze scientifiche: il rapporto con la mamma nei primi tre anni di vita è fondamentale. Solo che nel momento in cui la mamma è costretta in qualche modo ad andare a lavorare (e oggi il problema del lavoro in una famiglia è molto rilevante) bisogna trovare una formula adeguata per il rapporto.
Ma per il bambino l’asilo nido non può essere un luogo in cui imparare a “socializzare”?
Il problema della socializzazione è un problema enorme, oggi. Ma guardare il bambino pensando che la socializzazione sia uno scopo è assolutamente sbagliato, porta fuori strada: non si può forzare il bambino in questa direzione. La socializzazione è un tramite, uno strumento, è una facoltà di funzionamento con cui si cresce, in un percorso: la prima socializzazione è con la mamma. Quindi il problema non è la socializzazione con i compagni di asilo nido, a meno che lo scopo non sia un’omologazione totale: allora possiamo parlare di socializzazione anche a quest’età. L’asilo nido è un sostituto materno, un aiuto alla madre per permetterle di andare a lavorare, o comunque di avere un respiro: risponde a un’esigenza della madre, non del bambino.
E tra una mamma che, anche potendo farne a meno, va a lavorare, e una che sceglie di restare a casa con i figli, quale sarà la più felice?
Il problema si pone in questi termini: oggi quando parliamo di realizzazione della persona (quella profonda soddisfazione che porta a essere contenti della propria vita) ne parliamo, purtroppo, solo nell’ottica del lavoro. Per questo la maternità e la cura del figlio non sono più visti in termini realizzativi della persona, e si tende a percepire solo il peso di questo compito. Oppure anche la gioia di una buona prestazione; però prevale la percezione di un affaticamento più che di una soddisfazione realizzativa di sé. Io nel lavoro che faccio punto molto sull’aiutare le mamme a scoprire la bellezza di questa relazione col figlio: seguire il figlio che cresce non può essere solo un grande lavoro affaticante, ma è proprio una realizzazione profonda della propria persona.
Questa realizzazione profonda di sé che contributo offre al mondo? In altri termini, che vantaggio riceve la società se, attraverso opportune politiche assistenziali, concede a una mamma lo spazio per fare davvero la mamma?
La società ne avrebbe molti vantaggi. Anche questo è un tema complessissimo. Si è un po’ persa la coscienza che quello che si è nel privato (quindi essere una brava mamma e crescere dei bravi figli) non è solo per sé, per la propria famiglia, ma è un beneficio per tutti: a livello di prevenzione sicuramente, ma anche in molti altri aspetti, fino al livello economico. Tutto l’ambito della famiglia, l’impegno che a essa si può rivolgere, è diventato un fatto assolutamente privato: la società è il fine della società. Ecco, io credo che questa crisi di valori, questa crisi economica, questa “crisi dei fondamentali”, come dice il cardinale Scola, sta rivelando questo, fondamentalmente: tutto ciò che io sono riguarda tutti, e a maggior ragione la paternità e la maternità: avere la coscienza che genero il mondo, genero la certezza che si può essere felici, che si può fare bene nella vita; questo compito generativo della paternità e della maternità che non è soltanto rispetto al dato biologico, né solo rispetto a quello psicologico della crescita di un figlio, ma pertiene alla coscienza dell’adulto.
Quindi la società dovrebbe tutelare non solo la maternità, ma anche la paternità (magari in forme adeguate alla specificità di questo ruolo, e non offrendo indistintamente gli stessi diritti a entrambi i genitori)?
Il padre mantiene ancora in qualche modo la coscienza che il proprio lavoro serve al sostentamento della famiglia: quando un ragazzo diventa padre si rivolge al proprio lavoro con più accanimento, con più lena, con più passione e più motivazione. È anche vero, però, che un lavoro pesante per il padre viene percepito come ostile alla famiglia, soprattutto dalla madre. Il problema è se la dimensione lavorativa è nemica della famiglia e la famiglia è nemica della realizzazione nel lavoro: bisognerebbe superare questa inimicizia, prima di tutto. Allora le politiche familiari, anche in forme diverse, hanno un senso. Su questo argomento esistono numerosi studi: chi è sposato rende di più sul lavoro, il fallimento della famiglia ostacola la professione; molti stanno guardando alla famiglia come una risorsa da difendere. A me non importa quali strade si prendano: l’importante è rimettere la famiglia al posto giusto, cioè all’origine della persona, come relazione costitutiva di essa, e quindi costitutiva anche dell’aspetto lavorativo e della società.
Esistono fuori d’Italia modelli di tutela della genitorialità che possono essere presi ad esempio?
In alcuni Paesi c’è la possibilità di mantenere il lavoro e lo stipendio per la madre che decide di rimanere a casa con il figlio, anche per un periodo lungo, perché hanno calcolato che costerebbe di più fare gli asili nido che dare uno stipendio alle mamme. Altre forme non ne conosco; ma credo che la strada da percorrere sia innanzitutto quella di superare l’inimicizia tra lavoro e famiglia.
(Elisabetta Crema)