Se la massa critica di persone senza lavoro, che lo hanno perso o che ne hanno uno che non gli dà di che vivere ha raggiunto, effettivamente, i sette milioni, si fa presto a farsi un’idea del carico di aspettative che grava sulla riforma della Fornero. E che, con ogni probabilità, resteranno nel novero delle illusioni. Certo, qualcosa di buono è stato fatto. Tra le principali modifiche apportate dagli emendamenti depositati in commissione Lavoro, al Senato, si è modificata la disciplina relativa alla partite Iva e ai co.co.pro in senso tutto sommato positivo. Per il resto, la strada è ancora lunga. Abbiamo raccolto il commento di Giorgio Molteni, Avvocato esperto di Diritto del lavoro.
Come valuta, anzitutto, le modifiche alla regolamentazione delle partite Iva?
Bisogna ammettere che l’emendamento va incontro alle esigenze e alle preoccupazioni di chi temeva che il progetto di legge penalizzasse eccessivamente le partite Iva, andando a colpire, in particolar modo, anche quelle vere. Si è pensato, quindi, di introdurre una limitazione all’operatività delle presunzioni previste dal ddl. Ovvero, se a determinate condizioni si presume che la partita Iva celi un rapporto di subordinazione, per quelle con un reddito lordo superiore ai 18mila euro tale presunzione non opera più. In questo caso, non significa che non potranno essere ricondotte nell’ambito della collaborazione coordinata o del lavoro subordinato, ma che sarà il lavoratore che dovrà dare prova dell’esistenza di tale subordinazione.
Crede che i criteri individuati siano sufficienti a limitare gli abusi o l’impresa a cui conviene tenere il lavoratore in regime di partita Iva avrà modo di trovare in ogni caso una scappatoia?
In realtà, molto spesso le situazioni di abuso, già con la normativa vigente, si reggono su una situazione di reciproca convenienza. Se il lavoratore non adisce per vie legali è perché, in genere, non gli conviene. Per tre ragioni: o preferisce lavorare effettivamente in regime di autonomia perché ha più committenti; o perché l’impresa non è in grado di assumerlo, ma lo paga di più; o, infine, lavora per una piccola azienda e sa che riqualificando il rapporto non porterebbe a casa nulla. Per il resto, laddove sussistano abusi eclatanti, il lavoratore che fa causa vince nel 95% dei casi.
Crede, invece, che il salario minimo previsto per i co.co.pro determinerà benefici?
Un’indicazione di carattere generale già è prevista dalla legge Biagi. La nuova norma stabilisce che di anno in anno un decreto indicherà un limite minimo. Si dovrà attendere, quindi, tale decisione per capire quali saranno gli effetti sortiti. Ci potrebbero essere collaborazioni obbligate ad adeguarsi al nuovo indice salariale, ma non è escluso che tale indice sarà di fatto superato dalle collaborazioni esistenti.
Come giudica, nel suo complesso, la riforma?
E’ stata presentata ai mercati come uno strumento in grado di allineare le condizioni del nostro mercato del lavoro a quelle degli altri paesi europei. Ma, in un contesto di recessione, non è sufficiente cambiare le regole del mercato del lavoro per aumentare l’occupazione. Questa legge, paradossalmente, si potrà giudicare se e quando ci sarà la ripresa. E, in ogni caso, è priva di alcune misure fondamentali.
Quali?
Il legislatore non ha previsto l’implementazione delle politiche attive del lavoro, salvo un articolo, il 65, che contiene una delega per una futura emanazione di norme relative ai servizi per l’impiego. Ma un sistema di strumenti di questo tipo è necessario fin da subito.
Perché?
Avendo stabilito di eliminare l’indennità di mobilità e riducendo il periodo di copertura di cui godono i lavoratori che perdono il posto (per lo meno quelli delle grandi aziende), è necessario aiutare chi non potrà essere accompagnato alla pensione a ricollocarsi. Del resto, è necessario passare dalla logica secondo cui chi perde il posto va assistito all’ipotesi di aiutarlo a trovare un nuovo lavoro. La prima strada, infatti, non è più sostenibile.
Gli stessi strumenti valgono anche per i giovani?
Certo. I servizi per l’impiego potrebbero contribuire in maniera determinante ad aiutare chi si deve collocare per la prima volta. Sarebbe, contestualmente, necessario che il mondo del lavoro interagisse organicamente con quello dell’istruzione. Nella fase di agevolazione della prima occupazione, si potrebebro introdurre serie iniziative di orientamento: terminati gli studi, per trovare lavoro; finite le scuole superiori, per scegliere l’università; e, conclusa la scuola dell’obbligo, per orientare chi non vuole o non può continuare gli studi a intraprendere un lavoro o un’istruzione di tipo professionale che possa avere sbocchi effettivi sul mercato. In sintesi, è necessario fare incontrare la domanda con l’offerta.
(Paolo Nessi)