L’ipotesi è suggestiva: i nuovi coefficienti di trasformazione dei montanti contributivi, contenuti in un decreto che sarà emanato a breve, saranno più bassi. Non è escluso, tuttavia, che le pensioni possano essere più alte. Certo, i trattamenti previdenziali erogati tra il 2013 e il 2015, secondo i calcoli del ministero, si potrebbero ridurre del 2-3%. Tuttavia, il graduale innalzamento fino 69-70 anni dell’età necessaria per andare in pensione, garantirà assegni equi. E la possibilità, per chi decide di fermarsi ulteriormente al lavoro, di avere trattamenti ancora più gratificanti. Il ragionamento implica una premessa. Con l’innovazione del sistema contributivo, si è introdotta una proporzionalità biunivoca tra i contributi versati e l’entità dell’assegno. Ora, posto che tra precariato, disoccupazione, contratti atipici e via dicendo i lavoratori si troveranno ad avere sempre più buchi nella loro carriera, come la mettiamo? «Scordiamoci, infatti, di avere carriere continue. E non solo noi. Anche negli altri Paesi europei si considera, infatti, che per mettere assieme 35-36 anni di lavoro effettivo, occorrano almeno 42-43 anni», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Alberto Brambilla, esperto di previdenza sociale, già Sottosegretario al Welfare. «Più il tempo passa – continua -, più i percorsi saranno discontinui. Dovendo passare da un lavoro all’altro, si moltiplicheranno, ad esempio, le fasi di formazione». Lo scenario futuro inquieta. Non è detto, tuttavia, che masse di italiani siano destinati alla fame. E’ sufficiente, almeno per tamponare i danni, un decisivo ma proficuo cambio di mentalità.
«Non vi è alternativa all’indirizzare le proprie aspirazioni lavorative verso quei lavori e mestieri di cui c’è effettivo bisogno». Per intenderci: «Secondo tutte le ricerche e gli studi, tra cui quelli della Camera di commercio, c’è carenza di meccanici, saldatori, ingegnersi specializzati nel campo degli automatismi, elettricisti, idraulici e agricoltori». Puntualizzate le premesse, lo scenario si rasserena un poco: «Con l’età di pensionamento innalzata a 66-67 anni, posto che si inizi a lavorare a 24 anni, non si potrebbe smettere comunque prima di averne lavorati 43. In quei 43 anni, si spera che almeno 35 si siano accumulati. A quel punto, in effetti, i nuovi coefficienti sono strutturati in modo da compensarsi con l’aumento dell’età pensionabile. In sostanza, si lavorerà di più per ottenere un assegno di importo pari a quello che si sarebbe ottenuto con il vecchio regime. Ma, per lo meno, non dovrebbe essere inferiore». Secondo il ministro Fornero, per garantire la continuità lavorativa sarà sufficiente la sua riforma del mercato del lavoro. Brambilla non si sbilancia: «per il momento non è ancora stata varata. Ogni previsione sugli effetti prodotti, quindi, è subordinata all’osservazione empirica», dice. Tuttavia, alcune criticità sono, di per sé, già adesso evidenti: «Se per aprire una partita Iva occorre fatturare almeno 18mila euro, allora non ci saranno più partite Iva. Quando si comincia, difficilmente il fatturato supera i 5-6 mila euro. Perché, quindi, suggerire il terrore delle persone che intraprendono?».
Si obietterà che la misura è stata pensata per eliminare gli abusi e far emergere i rapporti di subordinazione. «Probabilmente – spiega -, in tal senso sarebbe stato meglio procedere in tutt’altra direzione. Incominciando da piccoli cambiamenti rivoluzionari». Ecco quali: «invece di 1500 pagine di normativa sul lavoro, sarebbe sufficiente un testo unico di 50-60 pagine come in Inghilterra o negli Stati Uniti; si sarebbe dovuto stabilire, inoltre, che la flessibilità assoluta, in un Paese poco abituato come il nostro, non potesse superare il 25%; o che la retribuzione oraria minima non potesse essere inferiore a 6 euro, invece dei circa 1 e mezzo attuali». Poche cose, certo; «ma con uno Stato che non è neanche capace di saldare i propri debiti, tutto può diventare un ostacolo insormontabile».
(Paolo Nessi)