In Italia, non ci sono mai stati così tanti disoccupati. Almeno, da quando l’Istat ha iniziato a rilevare il fenomeno. A marzo, infatti, hanno raggiunto il 9,8% della popolazione attiva, rispetto al 9,6% di febbraio. Complessivamente, sono 2 milioni e 506 mila; ovvero, il 23,4% in più dello scorso anno. Il massimo, da quando l’Istituto nazionale di statistica diede vita, nel 2004, alle serie storiche mensili; il massimo da quando, nel IV trimestre 1999, diede vita alle trimestrali. Sembra tuttavia che, mediamente, l’Europa sia messa peggio: l’eurozona segna il 10,9% di disoccupazione, mentre l’Ue a 27 il 10,2%. «E’ vero, ma il paragone, di per sé, non chiarisce quanto sia grave la situazione in Italia – spiega, raggiunto da ilSussidiario.net Gianni Zen, preside del Liceo Brocchi di Bassano del Grappa -. Occorre, infatti, enucleare i dati analitici della nostra economia, i cui fondamentali non sono messi bene. E prendere un fenomeno che da noi è decisamente più allarmante che altrove. Quello della disoccupazione giovanile». Che in effetti, si attesta anch’esso sul livello record del 35,9%; a febbraio, in Europa, era attorno al 22%. «Il nostro mondo del lavoro – continua Zen – è bloccato. Credo che Monti dovrebbe avere uno scatto d’orgoglio. Come quello che l’ha portato, con una mossa a sorpresa, a nominare tre super-tecnici per commissariare il suo governo di tecnici». Come prima cosa, dovrebbe parlare al Paese e spiegare come stanno realmente le cose. «Dovrebbe ammettere che il nostro sistema favorisce unicamente i garantiti, mentre l’unico criterio che lo regola è quello dell’anzianità e che, soprattutto nella pubblica amministrazione, sono del tutto assenti logiche meritocratiche. A questo, si aggiunge un mondo sindacale che confonde diritti e privilegi, il fatto che solo lo 0,3% nel mondo della scuola è sotto i 30 anni e che i nostri ragazzi non hanno alternativa che andare all’estero».  



Ecco, quindi, come ridisegnare lo scenario. «Nel pubblico è necessario distinguere, anzitutto, tra il piano del lavoro e quello dell’assistenza sociale. C’è del personale che, se fossero effettuate determinate verifiche, si scoprirebbe che non ha le competenze per assumere certi ruoli o funzioni. Il che produce, tra le altre cose, un livellamento a livello salariale. Tutti hanno pressoché lo stesso stipendio». Come si cambia la situazione? «Affidando a livello regionale e provinciale autonomia decisionale e la responsabilità dei controlli. Occorre, in sostanza, introdurre nelle pubbliche amministrazioni l’etica della responsabilità». In sostanza, «i ministeri sanciscono gli standard da rispettare. Ma la verifica di tali standard e la gestione dei servizi e del personale resta a livello locale. Come in Germania». Veniamo al privato. «Le regole dell’economia sociale di mercato vanno riscritte. Sarà necessario abbandonare una volta per tutte la logica secondo la quale l’impresa non è altro che il luogo ove massimizzare i profitti; essa, infatti, può essere intesa anche come il luogo della socializzazione del lavoro».



Il principio espresso ha modo effettivo di concretizzarsi. «Le cooperative rappresentano un esempio di lavoro dove il profitto fine a se stesso non è l’unico obiettivo. Ma non sono il solo. Credo che sarebbe necessario seguire, anche in tal caso, il modello tedesco. Ovvero, il mondo sindacale deve entrare nei consigli d’amministrazione delle aziende e, al contempo, non intenderle più come il luogo della contrapposizione tra il capitale e il lavoro. Devono cambiare, quindi, le regole della rappresentanza sindacale, in modo che i lavoratori possano condividere le finalità dell’impresa». 



Rivoluzionare pubblico e privato non sembra impresa che si possa compiere dalla sera alla mattina. «Serve, da parte di Monti, un effetto shock. Se vuole incidere realmente, dovrà fissare queste priorità. Il tempo stringe e se le suddette misure non saranno inaugurate fin da subito, ci attende solo la decadenza del Paese». Gli effetti di un programma del genere si potrebbero apprezzare in tempi tutto sommato rapidi. «In Italia, il problema più grande è quello della sfiducia. Attivarsi per realizzare il modello tedesco favorirebbe nell’immediato anche l’occupazione perché instillerebbe nel sistema delle imprese quel minimo di fiducia necessaria per credere nel futuro».

 

(Paolo Nessi)